Ho fatto un sogno. Cechov, sulle rive del Mar Secco, mi dava i suoi consigli per scrivere dei buoni racconti.
Il primo fra tutti, mentre ci aggiravamo come pazzi lungo le rive colpite dal Maestrale: «Per favore, assicurati sempre che i tuoi personaggi abbiano dei buoni cappotti, almeno in senso gogoliano, ma soprattutto che ci siano delle panchine dove fermarsi per riposare, che ogni tanto, a furia di parlare, ti viene male ai piedi!»
Un freddo ci prendeva dentro dall’interno, da un nucleo seppellito nel profondo che esploso risaliva in superficie, come un’eco muta e si spandeva in lunghi brividi concentrici sulla superficie della pelle. Ci vibrava il cuore di paura e d’ansia, man mano che ci confidavamo fra di noi, avventurandoci in quella terra desolata, continuando ad avanzare senza pace lungo la spiaggia piena d’ossa di tutti coloro che, prima di noi, erano passati per quello strano dolore polverizzatosi in sabbia, dove lasciavamo le impronte. Cechov mi guardava di sottecchi, nascosto dalla visiera del cappello.
«Dimmi, la senti anche tu questa porca disperazione che consuma, e ti costringe a vivere e godere anche se tutto ti chiede, ogni momento, di farla finita? È la mancanza degli altri quella, ed è per sempre, la solitudine di chi non sa, ma sente il vuoto che incombe sotto la superficie delle cose, l’eco sordo che rimbomba fra le volte. Tu sbagli atteggiamento. Prova ad esserci per gli altri, ma senza esagerare. Il mondo è pieno di ingrati. Dire la verità non aiuta. Per questo tu scrivila e basta. In questo modo potrai spacciarla per invenzione e sentirti a posto con la coscienza, in qualche modo. Il rispetto degli altri non ti serve quando sai di avere scritto ciò che devi. Alla solitudine ci si abitua, come vedi.»
Poi è suonata la sveglia e mi sono risvegliato con la sensazione che lui, di là, continuasse a borbottare da solo i suoi consigli, mentre mi allontanavo verso il letto.
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