lunedì 16 dicembre 2019

qualità

Stamattina pensavo che, in barba a tutti i proclami per cui la poesia è un genere nobile perché OLTRE il mercato, quando si parla di "mercato della poesia" l'unica proposta che viene fuori, anche dagli addetti ai lavori, è quella che si deve pubblicare di meno, perché si pubblica troppo. Quindi, invece di fare un discorso più ampio in cui si cerca di capire come allargare il pubblico dei lettori, quello sì risicatissimo, si fa un discorso all'opposto, mettendo al centro della questione non il lettore o il libro o la qualità della poesia, ma proprio il vituperato mercato. Ci si adegua a quello, insomma, spesso con modalità ferine: il mercato è stretto e quindi scalpito per farmi spazio, azzannando il mio simile. Il punto è che se si parla di qualità "assoluta" della scrittura, andrebbero pubblicati in assoluto, cioè per l'intero Paese, sì e no cinque libri all'anno: il resto è già obsoleto, già detto oppure inutile, rendendo vano non solo il mercato, ma anche tutta la filiera editoriale (dalle tipografie che stampano i libri alle decine di editori, fino alle librerie che li vendono). Si tornerebbe insomma indietro ai primi dell'800 quando, in una visione davvero aristocratica, il potere di scrivere era appannaggio di pochi. Perché la qualità assoluta si ottiene solo negando la democraticità del linguaggio. In tutto questo, è vero, spesso quelli bravi restano fuori dai giri per dar spazio (il poco concesso) a quelli meno bravi ma meglio bravi a vendersi. E infatti, quello che molti poeti dovrebbero chiedersi e non fanno è: "Ma io sono qui e pubblico perché sono bravo o perché mi sto vendendo meglio di un altro? Vendersi bene lo considero un pregio dell'arte oppure una macchia? E se si scoprisse che mi so vendere meglio di come scrivo, io lo farei un passo indietro, rinuciando per sempre al mio privilegio di pubblicare, per dar spazio a un altro, un bravissimo sconosciuto, in nome della qualità assoluta della poesia?"

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