La domanda che mi fanno tutti, da poeta, è perché non scrivo un romanzo. Avrei di sicuro maggiore successo. Come se scrivendo un romanzo facessi chissà quale salto verso il pubblico. In verità un paio di volte mi sono proposto anche per quello, ma credo di non aver convinto nessuno, nemmeno me stesso. Non credo di fare troppo schifo in prosa, ma serve una determinazione per essere romanzieri che i poeti veri se la sognano, perché i poeti partono avvantaggiati, non avendo nessun pubblico a monte non devono lottare con nessun altro che con se stessi e con i loro quattro colleghi sfigati: nessun pubblico, nessun mercato, nessun sistema editoriale. Una libertà di parlare al vento che molti romanzieri se la sognano. Alla fine non sviluppi nessun muscolo, nessuna mascella. Qualche volta, allora, ci ho provato anch’io a fare il salto, ma senza muscoli e senza successo, non mi ha “cagato” nessuno. Il rifiuto degli altri però è stato utile come esperienza, perché così resti umile, impari a metterti nei panni di chi rifiuti tu, stando dall’altra parte. Allo stesso tempo, lo confesso, ho sempre rosicato su qual è il punto di discrimine, dove cioè ciò che scrivo perde di interesse per chi legge e lo accantona a favore di qualcun altro. È l’unica cosa che mi rode e me lo chiedo, specie quando poi vedo pubblicare decine d’altri che non ritengo più validi di me, né migliori né peggiori ma semplicemente uguali, mi chiedo: cosa mi manca per essere più uguale a loro?
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