Ci
penso da alcuni giorni. Probabilmente è vero che “poesia civile” è più
che altro un’etichetta, una formula utilizzata per incasellare un
sottogenere. Non sono d’accordo quando si dice che si rischia, con
quella, di sfociare nella retorica. Visto che c’è anche una pesantissima
retorica dell’amore, non vedo perché una poesia civile debba essere
necessariamente più retorica di una qualsiasi poesia d’amore. Però è
vero, non siamo più capaci di leggerla col giusto trasporto emotivo –
senza ironie di sorta o imbarazzi – perché ce ne manca l’urgenza,
persino nella situazione più estrema chi legge e scrive poesia, oggi in
Italia, è per la maggior parte qualcuno che può permettersi di farlo, di
investire tempo e soldi in questo vizio. Come fa, dunque, l’indignato
contemporaneo, a scrivere di qualcosa che conosce a malapena, a
immergersi in quel tipo di rabbia che inneggia a una giustizia portata
al suo estremo? Guardo il TG e penso che così come oggi, qui, in molti
ritengano che sia da ingenui abbandonarsi a quel tipo di rabbia e di
versi, in altri luoghi com’è adesso Kabul – prendo una realtà spaventosa
fra le tante – sarebbe altrettanto assurdo per chi scrive, se può
scrivere, se sente l’urgenza di scrivere, pensare alla rima cuore-amore,
al canto degli uccelli, ignorando l’orrore intorno, la rabbia cieca e
la paura di chi subisce un sopruso a cui non può sottrarsi. Allora penso
a una celebre poesia di Tonino Guerra che ridotto alla fame, uscendo
dal campo di concentramento, vide un fiore e si commosse perché non
aveva più desiderio di mangiarlo. Anche quella è poesia civile, perché
si affaccia dalla propria fine verso la vita, si aggrappa alle pareti
del pozzo e risale tenacemente verso una luce. Noi quel tipo di
sensazione l’abbiamo provata, lo so, eppure adesso la teniamo a distanza
come se fosse posticcia, una posa falsa. Perché? Perché, se la poesia
nasce dal bisogno, e noi siamo troppo ricchi, troppo grassi, troppo
sazi, troppo tutelati, allora non siamo credibili, stiamo di sicuro
mentendo, non abbiamo le palle né il fegato per farla, non abbiamo il
pedigree, la patente, la voce giusta. Un po’ è vero, e un po’ credo che
siamo diventati anche sordi e ciechi alla voce degli altri, che il
nostro stesso cinismo si infili nelle orecchie come tappi di cera da
malpensanti. C’è una piccola parte di noi, là fuori, che è invisibile,
che probabilmente ha quell’urgenza nelle mani – giovani precari,
immigrati, disperati senza futuro e senza salute –, che vive sulla
propria pelle i problemi insanabili legati alla nostra società storta,
persone lacerate che si sbattono in fabbrica o nei campi, nei centri
diurni, che manifesta in piazza e reagisce anche coi versi, scrive il
proprio male. E c’è un’altra parte, più vasta, di lettori che li ignora,
quasi con paternalismo, che se ne vergogna, che non li legge, non sono
interessanti, che li giudica senza capire, che dice “Non ci sono più gli
incazzati di una volta!” mentre santifica poeti morti da più di
ottant’anni, che non compra i loro libri, non investe in loro, non crede
alle loro parole, li giudica falsi e spenti, li guarda dall’alto in
basso e se gli passa accanto fa finta di non vederli come si fa coi
mendicanti. C’è uno stacco profondo fra chi vive e chi scrive e un altro
stacco altrettanto profondo fra chi scrive e chi legge. Io vedo questo.
E dunque, all’estero non va meglio che da noi perché hanno voci più
sane e più forti, ma soltanto perché quelli che vivono, che scrivono e
che leggono stanno immersi tutti insieme nella stessa merda, con la
merda che gli arriva alle ginocchia e che sale a vista d’occhio, quindi
si guardano negli occhi e parlano la stessa lingua, che è la lingua
della merda che devono ingoiare. Qui da noi, la verità è che alcuni
mangiano merda e altri no, ma tutti pretendono di dirti la merda che
devi mangiare tu. E nessuno ti chiede scusa se ti rifiuti di mangiarla. E
se non la mangi fanno finta che non ci sei.
Poesie, pensieri e fotografie di Vitantonio Lillo-Tarì de Saavedra, in arte Antonio Lillo ovvero Antonio Hammett
mercoledì 25 agosto 2021
altri pensieri sparsi sulla "poesia civile" come sottogenere per la gente di merda
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