mercoledì 25 agosto 2021

altri pensieri sparsi sulla "poesia civile" come sottogenere per la gente di merda

Ci penso da alcuni giorni. Probabilmente è vero che “poesia civile” è più che altro un’etichetta, una formula utilizzata per incasellare un sottogenere. Non sono d’accordo quando si dice che si rischia, con quella, di sfociare nella retorica. Visto che c’è anche una pesantissima retorica dell’amore, non vedo perché una poesia civile debba essere necessariamente più retorica di una qualsiasi poesia d’amore. Però è vero, non siamo più capaci di leggerla col giusto trasporto emotivo – senza ironie di sorta o imbarazzi – perché ce ne manca l’urgenza, persino nella situazione più estrema chi legge e scrive poesia, oggi in Italia, è per la maggior parte qualcuno che può permettersi di farlo, di investire tempo e soldi in questo vizio. Come fa, dunque, l’indignato contemporaneo, a scrivere di qualcosa che conosce a malapena, a immergersi in quel tipo di rabbia che inneggia a una giustizia portata al suo estremo? Guardo il TG e penso che così come oggi, qui, in molti ritengano che sia da ingenui abbandonarsi a quel tipo di rabbia e di versi, in altri luoghi com’è adesso Kabul – prendo una realtà spaventosa fra le tante – sarebbe altrettanto assurdo per chi scrive, se può scrivere, se sente l’urgenza di scrivere, pensare alla rima cuore-amore, al canto degli uccelli, ignorando l’orrore intorno, la rabbia cieca e la paura di chi subisce un sopruso a cui non può sottrarsi. Allora penso a una celebre poesia di Tonino Guerra che ridotto alla fame, uscendo dal campo di concentramento, vide un fiore e si commosse perché non aveva più desiderio di mangiarlo. Anche quella è poesia civile, perché si affaccia dalla propria fine verso la vita, si aggrappa alle pareti del pozzo e risale tenacemente verso una luce. Noi quel tipo di sensazione l’abbiamo provata, lo so, eppure adesso la teniamo a distanza come se fosse posticcia, una posa falsa. Perché? Perché, se la poesia nasce dal bisogno, e noi siamo troppo ricchi, troppo grassi, troppo sazi, troppo tutelati, allora non siamo credibili, stiamo di sicuro mentendo, non abbiamo le palle né il fegato per farla, non abbiamo il pedigree, la patente, la voce giusta. Un po’ è vero, e un po’ credo che siamo diventati anche sordi e ciechi alla voce degli altri, che il nostro stesso cinismo si infili nelle orecchie come tappi di cera da malpensanti. C’è una piccola parte di noi, là fuori, che è invisibile, che probabilmente ha quell’urgenza nelle mani – giovani precari, immigrati, disperati senza futuro e senza salute –, che vive sulla propria pelle i problemi insanabili legati alla nostra società storta, persone lacerate che si sbattono in fabbrica o nei campi, nei centri diurni, che manifesta in piazza e reagisce anche coi versi, scrive il proprio male. E c’è un’altra parte, più vasta, di lettori che li ignora, quasi con paternalismo, che se ne vergogna, che non li legge, non sono interessanti, che li giudica senza capire, che dice “Non ci sono più gli incazzati di una volta!” mentre santifica poeti morti da più di ottant’anni, che non compra i loro libri, non investe in loro, non crede alle loro parole, li giudica falsi e spenti, li guarda dall’alto in basso e se gli passa accanto fa finta di non vederli come si fa coi mendicanti. C’è uno stacco profondo fra chi vive e chi scrive e un altro stacco altrettanto profondo fra chi scrive e chi legge. Io vedo questo. E dunque, all’estero non va meglio che da noi perché hanno voci più sane e più forti, ma soltanto perché quelli che vivono, che scrivono e che leggono stanno immersi tutti insieme nella stessa merda, con la merda che gli arriva alle ginocchia e che sale a vista d’occhio, quindi si guardano negli occhi e parlano la stessa lingua, che è la lingua della merda che devono ingoiare. Qui da noi, la verità è che alcuni mangiano merda e altri no, ma tutti pretendono di dirti la merda che devi mangiare tu. E nessuno ti chiede scusa se ti rifiuti di mangiarla. E se non la mangi fanno finta che non ci sei.

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