Il medico mi spiegò fin dall’inizio com’era tutto collegato, per quanto imprevedibile nei suoi tempi di sviluppo. Esploso il male, come primo effetto s’è rattrappita la voce, ridotta a un guaito di bestiola inerme, poi si è chiusa la gola e con essa la voglia di nutrirsi, dopo ha cominciato a sbavare per casa lasciandoci lunghe scie di bava che non riusciva più a contenere o tenersi in bocca, secondo me con lo scopo segreto di non perdersi mentre si trascinava in giro nel labirinto delle sue sofferenze e noi ne seguivamo le tracce.
Io imparavo con lui tutto un dizionario nuovo per me, ma necessario, che comprendeva termini medici e scadenze improrogabili, i controlli del lunedì in ospedale, le molte tappe da affrontare per arrivare a una fine lenta e dignitosa, la varia gamma dei suoi stati d’animo o dolori, che si esprimevano in pianti muti ormai ma per diversi motivi, certuni stupidi, quasi tutti relativi alla sua frustrazione e impotenza.
Gli mancava la forza nelle mani, non riusciva nemmeno ad avvitare il barattolo dei biscotti, o abbottonarsi i polsini. Il collo gli cedeva senza molla. Annaspava sulle gambe spente e piano piano, pensai, mentre cercava di respirare, si stava ripiegando su se stesso simile a una foglia autunnale che ridisegni un cerchio. Ma era in fondo più simile a una lumachina che trasmigri da una casa all’altra portandosi dietro le sue cose.
Io lo accompagnavo per le stanze sorreggendolo per le mani, con la paura che cadesse e ogni sera gli massaggiavo gli arti esangui strofinandoli fra i palmi caldi per dargli sollievo dal primo gelo della morte, così come aveva fatto lui a suo tempo con mio nonno.
Ecco come mio padre mi passava il testimone, depositandosi fra le mie mani. Ero il padre ormai per questo vecchio, ben sapendo come a un certo punto avrei dovuto lasciarlo andare solo, da buon figlio che rimane e seppellisce il padre e fa della sua vita una casa sola.
Io imparavo con lui tutto un dizionario nuovo per me, ma necessario, che comprendeva termini medici e scadenze improrogabili, i controlli del lunedì in ospedale, le molte tappe da affrontare per arrivare a una fine lenta e dignitosa, la varia gamma dei suoi stati d’animo o dolori, che si esprimevano in pianti muti ormai ma per diversi motivi, certuni stupidi, quasi tutti relativi alla sua frustrazione e impotenza.
Gli mancava la forza nelle mani, non riusciva nemmeno ad avvitare il barattolo dei biscotti, o abbottonarsi i polsini. Il collo gli cedeva senza molla. Annaspava sulle gambe spente e piano piano, pensai, mentre cercava di respirare, si stava ripiegando su se stesso simile a una foglia autunnale che ridisegni un cerchio. Ma era in fondo più simile a una lumachina che trasmigri da una casa all’altra portandosi dietro le sue cose.
Io lo accompagnavo per le stanze sorreggendolo per le mani, con la paura che cadesse e ogni sera gli massaggiavo gli arti esangui strofinandoli fra i palmi caldi per dargli sollievo dal primo gelo della morte, così come aveva fatto lui a suo tempo con mio nonno.
Ecco come mio padre mi passava il testimone, depositandosi fra le mie mani. Ero il padre ormai per questo vecchio, ben sapendo come a un certo punto avrei dovuto lasciarlo andare solo, da buon figlio che rimane e seppellisce il padre e fa della sua vita una casa sola.
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