È da poco uscita per La Vita Felice una nuova e ad oggi unica antologia italiana di poesie del regista tedesco Heiner Müller, nella traduzione di Anna Maria Carpi su testi scelti da Durs Grünbein, titolo: NON SCRIVERAI PIÙ A MANO. Ho “incontrato” quest’autore splendido una quindicina di anni fa (aprile 2009), proprio attraverso le sue poesie, per merito del regista teatrale Carlo Formigoni che mi donò una raccolta ormai introvabile, “L’invenzione del silenzio” edita dalla compianta Ubulibri nella traduzione di Graziella Galvani e Peter Kammerer, che raccoglieva materiali dei suoi ultimi anni di vita, fra la fine degli anni ’80 e la metà dei ’90 del ‘900, nel quale Müller col suo stile livido, spezzato, privo di punteggiatura e inframmezzato di citazioni (fra colte e prosaiche), sempre pregno di un umorismo nero di chi guardava in faccia l’angelo della morte, sovrapponeva la tragedia storica della fine della Germania dell’est e dell’intero comunismo, con la sua personale tragedia di un tumore diagnosticato che lo avrebbe portato alla morte. Era la fine di due mondi – “due miserie” avrebbe detto Gaber – in un corpo solo. C’è un testo bellissimo, all’interno dell’antologia della Vita Felice (che recupera e ritraduce anche molti dei testi del volume Ubulibri), in cui Müller scrive che Tacito a un certo punto dei sui Annales si scusa perché, vivendo egli durante un lungo periodo di pace, la narrazione rischia di farsi a tratti noiosa: con me, aggiunge Müller, questo rischio non si corre. Non a caso la sua autobiografia, (edita in Italia da Zandonai a cura di Valentina Di Rosa, ma anch’essa ormai introvabile), costruita rimontando insieme una serie di interviste che creano quasi l’effetto di un ritratto estorto sotto interrogatorio, si intitola “Guerra senza battaglia”. La parola “guerra” è quella che più torna nella sua vita e nella sua opera. Nato alle soglie della seconda guerra mondiale, un’infanzia orribile vissuta nella fame più nera della Germania sconfitta e assediata dai russi, aveva assistito prima alla costruzione del muro di Berlino, scegliendo di vivere dalla parte est in uno stato di guerra fredda perenne, combattendo non uno ma ben due nemici – da una parte l’occidente consumistico, dall’altro la dittatura comunista che lo usava come ambasciatore culturale all’estero e intanto lo contrastava, censurava e puniva in patria. Aveva visto il suo maestro-rivale Brecht finire i suoi anni come un leone triste chiuso in una gabbia dorata, aveva visto sua moglie depressa che sceglieva di suicidarsi piuttosto che essere infelice in quel mondo. E in tutto questo aveva scelto, per non impazzire, di fare teatro. Un teatro che, nella maggior parte dei casi, recupera i classici in una operazione molto simile a quella che in Italia farà Pasolini: riscrivere, rivisitare il mito, che sembrava allora così lontano dal presente, quasi una forma di “passatismo”, per parlare proprio del presente attraverso il suo archetipo. Andare alla radice. In Italia sono editi alcuni suoi testi teatrali, con preziosissimi commenti sul suo teatro: il bellissimo “Filottete” (Il Melangolo) scritto dopo un durissimo scontro proprio coi vertici della DDR, quando Müller venne processato e condannato a fare pubblica ammenda per i contenuti “antisovietici” di un suo spettacolo in seguito alla delazione di alcuni compagni, “Anatomia Tito Fall of Rome” (L’orma) e più di recente una raccolta dei dei suoi testi teatrali a cura di Milena Massalongo, edita da Cue Press, una bellissima casa editrice specializzata in teatro e cinema che ha raccolto l’eredità di Ubulibri. Resta pressante la domanda, perché Müller scelse di rimanere lì, di farsi ancora più male, di non “evadere” verso l’ovest dove avrebbe avuto maggiore fortuna, libertà e successo? Forse perché, come scrive Cesare Garboli in un suo studio su Molière, “il male e l’intelligenza coincidono”, e soltanto nel male si affina (spietatamente) l’intelligenza. In essa la realtà viene messa alla prova e ciò che resiste all’intelligenza, aggiunge Lacan, è la verità.
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