venerdì 26 ottobre 2012

aubade (alba)

Lavoro tutto il giorno e a notte sono mezzo ubriaco.
Mi sveglio alle quattro e sto immobile nel buio silenzioso.
Presto gli orli della tenda si illumineranno.
E guardo, intanto, quello che in realtà c’è sempre stato:
la Morte instancabile, di un giorno intero più vicina,
che rende impossibile ogni pensiero tranne come
e dove e quando morirò io stesso.
È arido interrogarsi, ma la paura
di morire, di essere morto,
lampeggia e mi trattiene e inorridisce.

La mente si svuota in quel bagliore. Non di rimorsi
(il bene non fatto, l’amore non dato, il tempo
rubato e sprecato) né perché purtroppo
una sola vita può sprecarsi a riscattare,
e senza mai riuscirci, le sue origini perverse;
ma per il vuoto totale ed eterno,
la sicura estinzione verso cui ci muoviamo
e dove saremo persi per sempre. Non essere qui,
né in nessun luogo,
e presto; niente di più terribile, niente di più vero.

Questo è il mio modo speciale di avere paura
che nessun trucco dissipa. Ci provò la religione,
quel vasto e tarmato broccato musicale
creato per illuderci che mai moriremo,
e tutte quelle chiacchiere che dicono: Non un essere razionale
può temere una cosa mai sentita, non capendo
com’è questo a spaventarci: nulla da vedere né udire,
nulla da toccare o assaggiare o annusare, niente a cui pensare,
niente da amare o a cui legarsi,
l’anestesia da cui nessuno può svegliarsi.

E così rimane ai margini della visione,
una piccola macchia confusa, un brivido persistente
che rallenta ogni impulso fino all’indecisione.
Molte cose potrebbero non succedere: questa sì,
e il capirlo ci accende di rabbiosa
bruciante paura quando ci prende da soli
o senza niente da bere. Il coraggio non vale:
serve a non impaurire gli altri. Ma essere forte
non rende nessuno immune alla morte.
Piangerla od opporsi non la rende diversa.

Lentamente la luce si rafforza e la stanza prende forma.
È lineare come un armadio quello che sappiamo,
che abbiamo sempre saputo, da cui non si può scappare,
che non si può accettare. Un lato dovrà cedere.
Intanto i telefoni stanno accucciati, pronti a suonare
negli uffici ancora chiusi, e tutto l’indifferente
intricato mondo a noleggio comincia a svegliarsi.
Il cielo è bianco come argilla, non c’è sole.
Il lavoro va fatto.
I postini come dottori vanno di casa in casa.

(Philip Larkin)

3 commenti:

albafucens ha detto...

bellissima

Marco Bertoli ha detto...

Philip Larkin, poeta, critico di jazz (e nemico del bebop).

lillo ha detto...

per certi versi lo sento molto affine, devo dire... (non sul bebop)