In principio gli uccelli volavano, ed erano creature di Dio. Volavano gli angeli, ed erano creature di Dio. Uomini e donne avevano lunghi arti e schiene lisce che Dio aveva creato così per una ragione. Cimentarsi col volo significava cimentarsi con Dio. Ne sarebbe nata una lunga battaglia, ricca di leggende istruttive.
Ero tornato nella vecchia casa dei mie nonni, ora diventata un purgatorio degli uccelli. Gli uccelli stavano in semilibertà nell’aia dove un tempo raspavano solo le galline, ma non potevano oltrepassarne i cancelli e nemmeno volare, mentre i loro nidi erano custoditi in casa, ordinati in una lunga sequenza di scaffali. Il museo era custodito da un vecchio che ricordavo di aver già visto ma senza certezze, e ad accogliermi al mio ingresso c’era anche il sindaco. Mi sono diretto subito verso l’aia che era diventata una sorta di campo sterminato e brulicante di uccelli di qualsiasi specie, volgari o nobili, le cui teste colorate spuntavano dalla massa di penne e di piume svolazzanti, di richiami diversi, striduli e gutturali, in continuo bisticcio peggio che sotto la torre di Babele. Il custode mi ha spiegato che quelle erano in realtà le anime dei morti in attesa della fine del mondo. Alla fine del mondo il cancello dell’aia sarebbe stato aperto e ogni uccello, recuperato il suo nido, avrebbe spiccato il volo a prendere posto sul ramo di un grandissimo albero che si vedeva anche da lì, a distanza. L’albero era Dio. Ho chiesto al custode se c’era anche mio nonno fra i pennuti e lui mi ha risposto di sì, che si era trasformato in un passerotto da combattimento. «Un passerotto da combattimento, – ho chiesto – e che sarebbe?». «È un uccellino che durante le guerre si infila negli zaini dei soldati a portargli fortuna in cambio di poche briciole di pane. Peccato che qui non ci sono guerre, e allora ci si annoia». Sentivo, intanto, come una lieve pressione risalirmi lungo la schiena, arrampicarsi in maniera delicata. Era mio nonno, che non potevo vedere, ma si aggrappava con le sue unghiette al maglione e poi con un ultimo frullo mi saliva in capo, a beccarmi lievemente sulla testa per farsi sentire, per salutarmi, e dire a modo suo che stava bene e in salute. Accompagnato da mio nonno e dal custode ce ne siamo andati a zonzo in quell’enorme piazza abitata ad ascoltare le storie degli uccelli in attesa del volo. Poi siamo entrati nel vecchio forno a cercare delle briciole di pane per mio nonno, e ci abbiamo trovato il sindaco. Era tardi, così ci stava preparando una frittata: «Qui a parte i sogni manca tutto, ma almeno siamo pieni di uova».
Julian Barnes, Livelli di vita, Einaudi, 2013
Ero tornato nella vecchia casa dei mie nonni, ora diventata un purgatorio degli uccelli. Gli uccelli stavano in semilibertà nell’aia dove un tempo raspavano solo le galline, ma non potevano oltrepassarne i cancelli e nemmeno volare, mentre i loro nidi erano custoditi in casa, ordinati in una lunga sequenza di scaffali. Il museo era custodito da un vecchio che ricordavo di aver già visto ma senza certezze, e ad accogliermi al mio ingresso c’era anche il sindaco. Mi sono diretto subito verso l’aia che era diventata una sorta di campo sterminato e brulicante di uccelli di qualsiasi specie, volgari o nobili, le cui teste colorate spuntavano dalla massa di penne e di piume svolazzanti, di richiami diversi, striduli e gutturali, in continuo bisticcio peggio che sotto la torre di Babele. Il custode mi ha spiegato che quelle erano in realtà le anime dei morti in attesa della fine del mondo. Alla fine del mondo il cancello dell’aia sarebbe stato aperto e ogni uccello, recuperato il suo nido, avrebbe spiccato il volo a prendere posto sul ramo di un grandissimo albero che si vedeva anche da lì, a distanza. L’albero era Dio. Ho chiesto al custode se c’era anche mio nonno fra i pennuti e lui mi ha risposto di sì, che si era trasformato in un passerotto da combattimento. «Un passerotto da combattimento, – ho chiesto – e che sarebbe?». «È un uccellino che durante le guerre si infila negli zaini dei soldati a portargli fortuna in cambio di poche briciole di pane. Peccato che qui non ci sono guerre, e allora ci si annoia». Sentivo, intanto, come una lieve pressione risalirmi lungo la schiena, arrampicarsi in maniera delicata. Era mio nonno, che non potevo vedere, ma si aggrappava con le sue unghiette al maglione e poi con un ultimo frullo mi saliva in capo, a beccarmi lievemente sulla testa per farsi sentire, per salutarmi, e dire a modo suo che stava bene e in salute. Accompagnato da mio nonno e dal custode ce ne siamo andati a zonzo in quell’enorme piazza abitata ad ascoltare le storie degli uccelli in attesa del volo. Poi siamo entrati nel vecchio forno a cercare delle briciole di pane per mio nonno, e ci abbiamo trovato il sindaco. Era tardi, così ci stava preparando una frittata: «Qui a parte i sogni manca tutto, ma almeno siamo pieni di uova».
1 commento:
il passerotto da combattimento , oh Lilluzzo
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