Sto leggendo “Il cinema di Orson Welles” di Peter Bogdanovich (Il Saggiatore, 2016), una sorta di lunga intervista a puntate, registrate anche a molti anni di distanza l’una dall'altra, che offrono la più completa autobiografia del regista. Questa struttura, che per certi versi segue l’andamento rapsodico ed estemporaneo dell’ultima fase produttiva di Welles, ha la capacità di mostrare le tante contraddizioni dell’uomo, o come possa cambiare nel tempo il suo punto di vista su fatti e persone. Si sprecano le battute fulminanti e gli aneddoti di Welles che era letteralmente due cose: un genio e un grandissimo affabulatore. La cosa ancora più straordinaria, però, deriva dal rendersi conto, leggendo, come negli Stati Uniti il primo aspetto non sia quasi stato percepito, anzi è stato spesso minimizzato, rimosso, o addirittura negato a più riprese fino al punto di ridurre Welles al suo opposto, a un ladro di idee altrui o a una fortunata macchietta. Lo stesso Welles con le sue risposte prova a dare varie motivazioni per questo trattamento, dalla persecuzione maccartista alle invidie o inimicizie dell’ambiente cinematografico, fino a tirar fuori le proprie pantagrueliche intemperanze umane. Poi, a un certo punto, si toglie la maschera da uomo di mondo, e la mette sul piatto in maniera molto pratica: probabilmente è vero che sono un genio, ma un genio che non sbanca il botteghino, il che a Hollywood è come dire che sei un signor nessuno proprio come tutti gli altri. Ecco esplicitata, in tutta la sua pienezza, la celebrata democrazia americana.
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