Oggi [su Facebook] Arminio ha scritto una bella poesia, o perlomeno a me è piaciuta, anche se Arminio secondo me è più poeta per altre cose che non scrivere in versi. Ma mentre la leggevo mi sono fatto i conti e ho pensato che pure Arminio, che viene spesso criticato per il suo successo, ma viene pur sempre dalla vecchia scuola, è diventato Arminio, o meglio il fenomeno Arminio, intorno ai 60 anni. Prima ha soltanto lavorato, come tutti, e più di tanti altri va detto, per arrivare a quel successo. Anche io, che ho 45 anni e non ne sono immune, punto ad arrivare a quel successo. Per cui mi sono dato altri 15 anni per riuscire nel mio piano, alla mia maniera (che è una maniera molto meno fisica di quella usata da Arminio), per riuscire a farmi amare od odiare dal pubblico, non restando fermo nella loro indifferenza. E ho pensato che in Italia forse per la poesia funziona un po' come per le pensioni, devi dare almeno 40 anni di contributi poetici per arrivare a un riconoscimento minimo che è un po' una pensione morale (quando ti dicono: hai fatto la fame ma l'hai fatta da poeta! Che culo!). I più scafati avranno anche un minimo riconoscimento economico, certo, e per i meno scafati c'è la legge Bacchelli che è una pensione sociale presa col pedigree da scrittore. Si arriva a pensione piena con quota 103, ovvero dopo 103 anni di sangue gettato sui versi e quella in genere se la godono gli editori che ti ristampano e gli eredi, che poi non vengono a trovarti nemmeno al cimitero.
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