Dicono di lui ch’era un gigante, e che visse fino ai quaranta con sua madre, mai procacciandosi un lavoro serio (fregandosene anzi) ma scrivendo giorno per giorno la sua grandissima opera d’arte, impegnandosi solo per quello, musica bella e perfetta, ai più incomprensibile, che si levava libera, negli anni della sua giovinezza, dalla finestra della sua stanza verso i bar del centro, giù per la scala antincendio.
Quando sua moglie accettò, firmando puntualmente il contratto, di prendersi cura di lui, lo mantenne per anni lavorando da sguattera (tale e quale a sua madre) e inventandosi poi, perché non era da meno in fatto di genio, un nuovo buffo lavoro, producendo spremute in cucina. A volte lui si nascondeva nel rumore di tornado delle lame d’acciaio dei frullatori, per non disperdere idee in borbottii-opinione sul tempo attuale.
Il pianoforte andava dalla cucina al salotto attraverso la porta, fra bottiglie, piatti lucidi e pentole di latta. Lei lo registrava quando componeva e lui riconfermava, fiero, a ogni nuovo pezzo, l’eterno giuramento, in salute e malattia.
Raccontano come negli ultimi anni, non reggendo più il rumore per mancanza di forze e di concentrazione, non reggendo più le grida raggelate del sedano e limone, della carota frantumata dalle lame, chiese adozione a una contessa russa, e fu portato al riparo nel silenzio della sua steppa senza uscita, dove muto si aggirava fra le stanze del castello, quasi un nuovo labirinto, quasi un grembo, e senza più toccare i tasti del suo piano, che sapevano ormai di pane morbido ammuffito.
1 commento:
ho un deja vu con questo racconto ;)
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