Il cancro del tempo ci divora, scriveva Henry Miller nell’incipit di Tropico del Cancro. Dobbiamo metterci al passo, passo serrato con la morte. È una verità così evidente, e allo stesso tempo scomoda, che parlarne troppo diventa indice di cattivo gusto. Siamo condannati, aggiunge Miller citando Rimbaud, non cambierà stagione.
Quello della fine del tempo è un concetto a cui ci hanno ben abituato i poeti da quando, con l’Illuminismo, la poesia ha cominciato a rifiutare come illusoria l’idea di Paradiso e a viverla come un’ambizione impossibile, frustrante. Tutto ciò a cui possiamo aspirare, dicono, è un lungo ed estenuante Purgatorio, in cui le poche gioie sono da spremere al contagocce dalle semplici cose intorno a noi, che con grazia francescana abbiamo il dovere di ricominciare a osservare, proprio nel secolo in cui guardare e basta è un’operazione talmente svalutata da non servire più a nulla.
Da sempre gli artisti, e in particolare i poeti, si sono assegnati il compito di salvare gli attimi vissuti e rilanciarli in avanti. Proprio per la difficoltà di tale compito spesso le loro opere richiedono ai lettori impegno e disciplina, ed ecco perché in una società sempre più pigra e al contempo rapida com’è la nostra, hanno perduto ascoltatori e fiducia. Perché fermarsi ad ascoltare un messaggio di pessimismo senza ambizioni?
Eppure già fare poesia è un’ambizione. E contro ogni pessimismo, o forse proprio per quello, fra le poche e spudorate gioie riservate dai poeti c’è la vendetta. Nessuno sa usare le parole per ferire meglio di un poeta. Una feroce vitalità che irrora l’animo, sia quando a essere insultato è l’amante di turno sia quando lo è il sistema che ci comprende tutti per quello che siamo, dei precari del tempo.
In questo il poeta, primo fra gli inetti, non fa sconti per nessuno. Dante ne condanna parecchi all’Inferno che, nell’immaginario comune, resiste ancora bene. E Montale scatena su di loro Clizia, mai più angelo né diavolo, perché ne faccia piazza pulita di fronte alla storia. Pene terribili insomma, per chi non può rispondere o non vuole. Ed è il silenzio di chi magari non ha nulla di particolarmente originale da dire, ma non fiata nemmeno per ricordarci d’essere, pur brevemente, stato: il peggiore degli sprechi.
Fatevi sentire, anche solo per riconfermare il vostro no. Perché, come rispondeva Brodskij all’anonimo giudice che gli chiedeva, per sminuirlo, chi mai lo avesse arruolato nei ranghi dei poeti: “Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?”
Articolo uscito su Largo Belllavista n°67, febbraio 2013, nella rubrica Senilità. Foto, di Anders Petersen.
Quello della fine del tempo è un concetto a cui ci hanno ben abituato i poeti da quando, con l’Illuminismo, la poesia ha cominciato a rifiutare come illusoria l’idea di Paradiso e a viverla come un’ambizione impossibile, frustrante. Tutto ciò a cui possiamo aspirare, dicono, è un lungo ed estenuante Purgatorio, in cui le poche gioie sono da spremere al contagocce dalle semplici cose intorno a noi, che con grazia francescana abbiamo il dovere di ricominciare a osservare, proprio nel secolo in cui guardare e basta è un’operazione talmente svalutata da non servire più a nulla.
Da sempre gli artisti, e in particolare i poeti, si sono assegnati il compito di salvare gli attimi vissuti e rilanciarli in avanti. Proprio per la difficoltà di tale compito spesso le loro opere richiedono ai lettori impegno e disciplina, ed ecco perché in una società sempre più pigra e al contempo rapida com’è la nostra, hanno perduto ascoltatori e fiducia. Perché fermarsi ad ascoltare un messaggio di pessimismo senza ambizioni?
Eppure già fare poesia è un’ambizione. E contro ogni pessimismo, o forse proprio per quello, fra le poche e spudorate gioie riservate dai poeti c’è la vendetta. Nessuno sa usare le parole per ferire meglio di un poeta. Una feroce vitalità che irrora l’animo, sia quando a essere insultato è l’amante di turno sia quando lo è il sistema che ci comprende tutti per quello che siamo, dei precari del tempo.
In questo il poeta, primo fra gli inetti, non fa sconti per nessuno. Dante ne condanna parecchi all’Inferno che, nell’immaginario comune, resiste ancora bene. E Montale scatena su di loro Clizia, mai più angelo né diavolo, perché ne faccia piazza pulita di fronte alla storia. Pene terribili insomma, per chi non può rispondere o non vuole. Ed è il silenzio di chi magari non ha nulla di particolarmente originale da dire, ma non fiata nemmeno per ricordarci d’essere, pur brevemente, stato: il peggiore degli sprechi.
Fatevi sentire, anche solo per riconfermare il vostro no. Perché, come rispondeva Brodskij all’anonimo giudice che gli chiedeva, per sminuirlo, chi mai lo avesse arruolato nei ranghi dei poeti: “Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?”
Articolo uscito su Largo Belllavista n°67, febbraio 2013, nella rubrica Senilità. Foto, di Anders Petersen.
3 commenti:
Facciamoci sentire dunque. Ostinatamente fino all'accusa di follia continuiamo a dire "cose" che se nel pratico non risolvono, certamente brillano d luce propria come certe comete di passaggio, altoparlanti negli aeroporti della fretta quotidiana.
marian se la aggiusti un attimo, questa è una poesia.
infatti l'ultima immagine mi piaceva proprio come mi piacciono certe poesie... ;)
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