Io e Silvio andiamo a trovare Francesco, il nostro maestro di fotografia. Vive in campagna, lontano da chiunque, in una zona lievemente rialzata che va raggiunta attraverso una stradina serpeggiante e ripida, e passa le sue giornate lì, col suo cane, godendosi un orizzonte meraviglioso della valle.
Quando arriviamo sta tagliando la legna, ha un dito fasciato da un taglio, e il cane ci viene incontro facendoci le feste. Francesco è un tipo rude all’apparenza, ci saluta appena, non parla molto, ma nonostante l’imbarazzo gli fa piacere scambiare due chiacchiere, si vede. Ordina a Silvio di preparare un caffè mentre accende il fuoco.
Poi tira fuori per noi una scatola con delle vecchie foto e la data 1976-77, un anno della sua vita racchiuso in circa duecento scatti in bianco e nero. In una serie dei bambini corrono fra gli alberi inseguendo un pallone, in un’altra un ragazzo serve ai tavolini di un bar di provincia, in un’altra ancora degli uomini pisciano nei bagni pubblici di un autogrill. Poi c’è una foto sola, la più bella di tutte, che rappresenta le panchine vuote nel buio, illuminate appena da un faro, nella metropolitana deserta di una città senza più nome.
Moltiplicatela per quarant’anni, ci dice con la sua voce scura, e avrete una piccola visione della mia vita. Mentre parla si toglie la fascia dal dito per disinfettarlo, e lascia che il suo cane lo lecchi sporcandosi il musetto di sangue. Non ho più voglia di nulla, ci dice, né di troppo rumore né di mostre o d’Europa. E ci racconta, come fa spesso, del suo amico Bonasia, morto per la fotografia e per la droga. Per la verità.
Ma cos’è la verità?, gli chiedo a bruciapelo. Mi fissa a lungo, punta il dito ferito verso la finestra che lascia entrare, nonostante l’inverno, una luce calda e piena, e dice: la verità è un grande pannello neutro contro il muro, accanto alla finestra, così puoi fare delle foto con la luce naturale.
La luce naturale? Sempre!, mi risponde sicuro.
Si alza per andare incontro al muro. Nella luce i suoi capelli lunghi e crespi, la sua barba bianca, si illuminano. Prima sembrano bruciare, evidenziando i segni del tempo sul suo volto abbronzato, poi scomparire contro il muro bianco, far scomparire tutto, man mano che si fa fatica a tenere gli occhi aperti, a metterlo a fuoco in tutta quella luce, finché non chiudi gli occhi e lui diventa trasparente.
3 commenti:
FRASE
Quando un tram carico di gente
ti lascia a un incrocio, e sei solo
sul piazzale, davanti a un casamento
che in piena luce sta lì
piantato, chiaro, chiuso come un monte,
ti sembra di capir bene,
eppure non sai rispondere.
Ma poi a volte dentro
- giù, giù, sul fondo,
dove tutto il fiato è finito
e niente si lascia dire – viene una frase
e senti che sta già in piedi, che è viva,
che è vera come un naso, come una mano.
(Così al museo
due sale più lontano
uno sente arrivare una comitiva.)
Umberto Fiori
Sono commossa.
Mamma che bello.
La verità è bella, sempre, anche se è brutta :-).
la trasparenza,il sogno di un fotografo
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