Esploro i confini artici. Mi sono perduto, in realtà, in una terra fatta tutta di parole in sospeso che gelano nell’aria e restano lì come sassi non lanciati, risposte non date, temperature che mettono a disagio come piccoli pesi sull’anima, quelli delle vittorie mancate. Mi dirigo a ovest, poi a est, in esplorazione appunto, per scoprire di restare sempre al centro di quella valle senza amici, ma in cui l’unico altro vivo è un piccione viaggiatore di un blu cadaverico, venuto a portarmi un messaggio che non dice. Stiamo in attesa, in silenzio, studiandoci per ore in quel bianco sporco e insensato degli occhi, stretti nei cappotti, e leggendo per ingannare il tempo vecchie pagine di giornali che parlano di ieri inespressi e strisciano trascinate dal vento fra le nostre caviglie, avviluppandole.
Io guardo al cielo che pare una terra rovesciata ma migliore, sempre grigia ma più luminosa, immaginando che mi spuntino le ali per andarci. Allora il piccione viaggiatore comincia a sbottonarsi e a parlarmi di una chiave che non sa ma c’è da qualche parte, per aprire una porta che non sa ma attraverso la quale poter uscire di lì. Man mano che parla comincia ad annerirsi come un piccolo moro, un corvo, il becco gli si fa più aguzzo, tanto che medito, perplesso e un po’ affamato, se non sia il caso di strozzarlo e poi mangiarmelo, poi ci ripenso, perché ricordo di un sogno in cui mi è stato detto che gli uccelli sono sacri. Così, per evitarmi nuove tentazioni, gli affido una missione, gli annodo intorno al collo, come una sciarpa, ben stretta, una pagina di giornale raccolta a caso da terra, e gli dico di portarla altrove, affidarla a un altro, dare a lui la colpa, oppure chiedere di perdonarmi in qualità di interposta persona. E gli dico che solo così potrà salvarmi, attraverso il perdono dei lettori.
Il piccione prende a cuore la missione, e parte in volo con uno scrupolo che mi commuove, ma boccheggiando per colpa del mio nodo troppo stretto. Lo guardo allontanarsi incerto in quel cielo che mi riflette come in apnea. Poi resto da solo, con tutte quelle parole intorno, inutili.
Io guardo al cielo che pare una terra rovesciata ma migliore, sempre grigia ma più luminosa, immaginando che mi spuntino le ali per andarci. Allora il piccione viaggiatore comincia a sbottonarsi e a parlarmi di una chiave che non sa ma c’è da qualche parte, per aprire una porta che non sa ma attraverso la quale poter uscire di lì. Man mano che parla comincia ad annerirsi come un piccolo moro, un corvo, il becco gli si fa più aguzzo, tanto che medito, perplesso e un po’ affamato, se non sia il caso di strozzarlo e poi mangiarmelo, poi ci ripenso, perché ricordo di un sogno in cui mi è stato detto che gli uccelli sono sacri. Così, per evitarmi nuove tentazioni, gli affido una missione, gli annodo intorno al collo, come una sciarpa, ben stretta, una pagina di giornale raccolta a caso da terra, e gli dico di portarla altrove, affidarla a un altro, dare a lui la colpa, oppure chiedere di perdonarmi in qualità di interposta persona. E gli dico che solo così potrà salvarmi, attraverso il perdono dei lettori.
Il piccione prende a cuore la missione, e parte in volo con uno scrupolo che mi commuove, ma boccheggiando per colpa del mio nodo troppo stretto. Lo guardo allontanarsi incerto in quel cielo che mi riflette come in apnea. Poi resto da solo, con tutte quelle parole intorno, inutili.
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