Fra
i pochi ricordi condivisi da mia nonna con noi bambini il più importante
riguardava l’arrivo degli americani alle Fogge di Barnaba. Nonno era
prigioniero in Albania e lei lo aspettava in quella loro casa in campagna, da
cui si allontanava solo la domenica, a piedi, per raggiungere il paese per la
messa. I soldati americani arrivarono in un gran polverone che toglieva il
fiato e seccava la gola. Si fermarono davanti alla sua porta e in una lingua
torbida, e a gesti, le chiesero dell’acqua, per poi riposare un poco sotto l’albero
vicino alla pila delle bestie, prima di riprendere la marcia. Anni dopo mia
nonna li ricordava ancora con gli occhi spalancati e la bocca che tremava. Era
l’arrivo del futuro quello, annunciatole da quei soldati in una lingua tanto
incomprensibile per lei quanto il latino della messa. In quella lingua oscura le
dicevano di tenersi pronta, perché li seguiva un tempo nuovo e feroce che
avrebbe divorato il suo tempo chiuso, miserabile e felice delle Fogge di
Barnaba, quel tempo che presto l’avrebbe schiacciata al suolo. Mia nonna
annuiva con gentilezza e un po’ di paura, ma non conosceva quella lingua, e per
questo ci mise molti anni a capire le sventure che avrebbe portato.
2 commenti:
Un pezzo di prosa che è poesia
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