Riporto questo pensiero di Stefano Dal Bianco che non sono sicuro di aver capito in pieno (per metà mi sembrano cose molto sensate e intelligenti e per metà stronzate), ma che mi pare c’entrare molto con alcuni discorsi che abbiamo già affrontato in merito alla poesia civile:
«La cosiddetta poesia civile, quella più implicata con il mondo dei significati, ha poco senso perché nel migliore dei casi ci dice ciò che già sappiamo, e questo mi pare un compito ben povero per una poesia. Soltanto chi non ha niente da dire si preoccupa di quello che scriverà. La poesia vera non può che nascere da un mondo soggettivo talmente saldo nei suoi presupposti psichici che non ha bisogno di pensare o badare a se stesso, come non ha bisogno di dire “io sto qui e non li”, oppure “io penso questo e non quello”, ecc. Soltanto chi ha già tutto può permettersi il lusso (necessario) di essere generoso. I poeti assillati dal bisogno di dire qualcosa sono quelli cui manca qualcosa di fondamentale: soggetti non risolti che non sono in grado di provocare una crescita della realtà ma subiscono le proprie idiosincrasie e i propri squilibri. Questi vanno in cerca di qualcosa di troppo effimero e di troppo soggettivo per esserci utili veramente: non escono da sé stessi.»
Su una cosa però sono molto d’accordo con Dal Bianco: che non è poesia civile quella che nasce dalla voglia di “dichiarare” dove si sta; ma è poesia civile quella che nasce da un bisogno assoluto e sempre assai personale, dall’intima necessità di denunciare una ingiustizia talmente grande che ti si aggrovigliano le viscere e ti pervade la rabbia sorda di chi e non puoi star zitto, ma allo stesso tempo questa rabbia è fredda, metodica, la incanali in versi, la esprimi in canto, fino a farla diventare, se il canto è buono, voce di tutti. Non sono chiacchiere mie, la nostra storia è piena di esempi. Ma chissà dove è finito questo tipo di rabbia nella poesia civile italiana di oggi.
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