"Amore è quando ti attecchisce un gelso in fronte". Continuo a ripensare da giorni a questo verso di Lino Angiuli. Quando l'ho letto per la prima volta mi è sembrato così leggero, luminoso, da essere quasi alieno a quanto si legge oggi. Un verso che viene quasi da un altro tempo. Lo rende diverso la gioia vitale che ne trasuda, una gioia nuda, che è priva di pudore, senza mascherine. L'altro giorno un amico che ama la poesia mi diceva che sta leggendo poesia che ferisce, che entra nella carne, toglie il fiato. E credo questo sia il sentimento generale che prevale oggi in chi legge e scrive poesia. Siamo a tal punto dentro il nostro tempo, talmente assuefatti alle sue brutture, alle sue deformazioni drammatiche, televisive, che non solo la felicità, il semplice riso, ci paiono quasi fuori posto, ma ormai per sentire che "c'è" la poesia ci serve che sia cruda, scabra, caricata a pallettoni di dolore. Sale sulle ferite. Una poesia semplicemente gioiosa non ci è concessa, non ce la perdoniamo, e non perché non riusciamo più a innamorarci, a gioire (e per gioire non si intende "accontentarsi delle povere cose" che è già una proiezione in negativo, ma godere del tutto che c'è in quanto mi piace, mi fa stare bene, che è una proiezione salutare della vita); ma soltanto perché la nostra pelle è così spessa, il nostro cuore a tal punto anestetizzato che non la sentiremmo sincera, la poesia, non la sentiremmo profonda se muovesse solo al riso, restasse fuori, vibrante nell'aria, se non si spingesse un po' più a fondo, ancora più a fondo nella carne, fino a farci sanguinare, fino a ricordarci attraverso il dolore che siamo vivi, creature di masochistico splendore. Il che non è un demerito della poesia, credo, ma una perdita del poeta.
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