Enzo Cervellera era un uomo timido. Molti questo non lo hanno capito. Era un uomo a suo modo ambizioso ma era anche capace di commuoversi come pochi, anche se spesso si trincerava dietro quella sua aria severa da professore. Era anche un gran rompiscatole quando voleva, ma era una persona onesta, talvolta rigido e sempre eccessivamente severo e rigido con se stesso. Negli ultimi anni di malattia aveva scoperto delle debolezze in sé che non riusciva ad accettare e per questo si era chiuso in se stesso, non usciva più di casa. Amava la scrittura, gli aneddoti, sapeva recitare Dante come pochi altri, e andava fiero dei suoi amici. Era l’ultimo rimasto del suo gruppo e questo lo faceva soffrire. Una volta parlando di loro, di Franco, Peppe e Tuccio mi disse con grande malinconia nella voce: «Sono stato un uomo fortunato, perché ho conosciuto persone di grande prestigio e intelligenza che mi hanno voluto bene, e io ne ho voluto a loro». Altre volte mi esortava a non essere pigro, a non accontentarmi, a non finire come lui per mancanza di ambizioni. Mi ricordo che il mio primo libro lo volle presentare lui e mentre ne parlava gli tremavano le mani per il nervosismo. Aveva dedicato tutta la sua vita all’insegnamento e proprio per questo aveva scommesso tutto sui giovani. Nessuno lo sa, ma quando abbiamo aperto Pietre Vive, Enzo mi ha dato una grossa mano economica ad avviare il progetto e senza chiedere nulla in cambio. Era appena uscito dal suo primo ricovero ospedaliero e mi disse che quello era il suo investimento sul futuro. In cambio leggeva in anteprima tutti i libri da noi pubblicati. Mi ha dato, credo, più di quanto ho dato io a lui, e non sarò il solo a dirlo. Proprio per questo Enzo si meritava un funerale migliore di quello a numero chiuso che gli verrà dedicato domani. Lui mi avrebbe risposto che non c’era da preoccuparsi, perché il tempo è un galantuomo e separerà il grano dalla crusca. Ma qui l’unico galantuomo era proprio lui.
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