mercoledì 12 gennaio 2022

una resa dei conti

Ha ragione il Corsi quando dice – come ha fatto poco fa con me – che la chiusura del blog di poesia della Rai ha un po’ il sapore di una resa dei conti. Resa dei conti di una cultura che dà una parte esalta retoricamente l’idea stessa di poesia come genere sommo nella terra di Dante, Petrarca e Mussolini (che “ha scritto anche poesie”), ma poi nei fatti chiude le porte in faccia senza problemi a chi la pratica e pubblica, e a dispetto delle apparenze non sono pochi. Si assiste così a questa specie di resa generale al mercato, in tutte le sue possibili declinazioni: da quella della rivista di Crocetti che si accasa con Feltrinelli realizzando un po’ il sogno di tutti i piccoli editori, che sbolognano un’indipendenza dall’industria culturale in attesa che l’industria culturale se li mangi per fare pace coi conti in rosso; a quelle di giornali e blog letterari che dedicano sempre meno spazio, sempre meno competente, sempre più annoiato alla poesia, genere che non sanno leggere né nel cuore né nella forma. Quanti sono oggi gli spazi più o meno ufficiali che dedicano uno spazio alla poesia: poco più di una decina. Il più potente, la televisione, se va bene la tratta alla stregua di un circo, se va male le sbadiglia in faccia. Quanti editori di poesia ci sono oggi in Italia? Pochissimi nella qualità e moltissimi nel numero, eppure tutti in continuo affanno. Perché (considerata la quantità assurda, nauseante, di autori che si propongono)? Perché i libri di poesia a dispetto di tutto questo circo di scrittori o sedicenti tali non si vendono, o meglio non li compra nessuno, manco per fare i regali a Natale. Prima almeno si recensivano, adesso nemmeno più quello. Del resto dove li recensisci? Su quale sito? Poi si parla di poesia come dell’ultimo spazio di libertà di chi scrive perché non è condizionato dal mercato. Ma sono chiacchiere. Se un libro non lo vendi e non lo recensisci è come se non esistesse, diventa un fallimento che pesa. E poi meno spazio non implica più libertà, indica maggiore necessità di amicizie e favori per avere quei cinque minuti di celebrità per i quali, tutti, pubblichiamo libri. Altrimenti li terremmo chiusi nel cassetto. Non c’è più uno spazio adeguato di espressione, di dialogo e confronto. E questo non è sano. Quanto senso ha, ormai, per un editore, pubblicare un autore – per quanto bravo sia – che non sa autopromuoversi, o vendersi, o mettersi in posa ammiccante, o che non ha i giusti amici nei siti giusti per dire almeno che ci siamo sui giornali, visto che manchiamo quasi del tutto sugli scaffali delle librerie? Io non lo so e me lo chiedo di continuo come editore. Come lettore nemmeno mi dovrebbe interessare, visto sono nato nella terra di Dante, Petrarca e Mussolini (che “ha scritto anche poesie”) e questo certo dovrebbe bastarmi.

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