Ieri un amico mi scriveva che dopo le due letture di poesie a Sanremo si è scatenato un polverone, il solito, per capire chi è poeta o no. C’è chi dice che la Gualtieri è più poeta di Arminio e c’è chi dice che nessuno dei due, per diversi motivi, è poeta. C’è chi a questo punto tira in ballo Magrelli, di cui esce a breve il nuovo libro, dicendo che Magrelli è stato poeta nei suoi primi tre libri ma dopo quelli non più; ma a questa stregua ci sarebbe da chiedersi se è più poeta Magrelli che prova a sperimentare nuove formule e linguaggi con risultati non sempre all’altezza del suo nome, o De Angelis che è superbo nel riscrivere lo stesso libro da più di vent’anni, dando credito a chi dice che la poesia è soprattutto musealizzazione di se stessi in un procedimento collaudato. “Brand” è il termine per il mercato. Quando la poesia trova il suo brand vende. Ma chi può dire chi è poeta o no, e in base a quale criterio o gusto? Se le vendite non fanno testo, se il gusto del pubblico nemmeno, se quello degli addetti ai lavori è fazioso come pochi – e lo dico io che ci sto dentro, se la critica se ne sbatte e anche se non se ne sbattesse importerebbe a pochi (perché attenzione: se la critica dice che Arminio fa schifo è ok, ma se la stessa critica, ammesso che si accorgesse di te, dicesse che il tuo libro è insignificante quanto il suo, tu lo accetteresti?). Chi decide, insomma, chi è poeta o no? E come? Tutto questo parlare a vuoto mi ha fatto pensare a quando i giornalisti a metà anni 60 chiedevano a Bob Dylan – altro esempio di artista che non si è mai capito di preciso cos’è – di esprimersi sui cantanti di protesta della sua generazione, e lui rispondeva così: Sono 136, non uno di più non uno di meno. E allora i giornalisti, che non capivano lo scherzo, continuavano: E lei si considera un cantante di protesta? Io no, diceva Dylan, io sono un “One Man Show”, un uomo che fa il suo spettacolo tutto da solo. I giornalisti compiaciuti ridevano.
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