Penso all’opposizione fondamentale di Fromm, «essere o avere», e penso come la stessa, trasportata a Sud, cambia colore, perché qui il verbo «avere» non esiste, non si usa, è un prestito dell’italiano al nostro dialetto più profondo. A Sud non si dice «avere» ma «tenere», io non ho, tengo. È una differenza importantissima, perché la lingua, al di là di quanto ci fanno credere quelli che decidono per noi, non è solo un fatto di colore, la scelta di un vestito o una opzione economica, no, la lingua che parli dà un significato diverso a come guardi il mondo. Così «avere» è una condizione fuori dal tempo: io ho qualcosa da sempre, posso perderla certo, ma è mia di diritto; «tenere», invece, è una condizione provvisoria, un colpo di fortuna o di furbizia, qualcosa che mi sono conquistato, ma che trattengo finché posso, non è mio e già domani potrebbe essermi strappato e tornare in gioco. «Tenere» è il verbo dei poveri, di chi ha fame e morde l’osso con rabbia. In questo senso, tradurre l’opposizione di Fromm in «essere o tenere» cambia tutto, una opposizione così ti fa già precario nell’anima, già votato a quel nulla che ti spetta per nascita, oppure all’«essere» che qui, una volta, si identificava in due modi: o col rispetto e l’onore garantito ai galantuomini, per quanto poveri, dalla loro parola; oppure, per gli ultimi, non con l’essere uomo, ma con l’identificarsi in tutto e per tutto con Dio, centro del mondo, come se fossimo, noi, cosa sua. Dio ci teneva stretti e solo lì, fra le sue fauci, eravamo al sicuro.
1 commento:
bellissima considerazione linguistica
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