domenica 28 agosto 2016

hackensack

Fra i tanti disastri degli ultimi giorni mi era del tutto passata inosservata la notizia della morte di Rudy Van Gelder, il 25 agosto. Van Gelder per molti appassionati era IL tecnico del suono, con l’articolo in maiuscolo, avendo registrato alcuni dei capolavori del jazz di metà '900: dai primi dischi di Monk, Miles e Sonny Rollins fino ad A Love Supreme di Coltrane. Lo stesso Monk gli dedicò un pezzo Hackensack, inciso nel 1954, e dedicato alla particolare sala di registrazione utilizzata dal primo Van Gelder, nella cittadina di Hackensack, New Jersey. Poiché l'arte si nutre in entrambe le misure di talento e di leggenda, il successo di Van Gelder, oltre che per le sue capacità, si deve anche alla particolare leggenda costruita dal suo personaggio, e dalla sua particolarità di registrare in casa sua gli artisti che di volta in volta chiedevano il suo apporto. Immaginate di essere poco più di un ragazzo della tranquilla provincia americana di metà anni ’50 e di invitare nella casa dei vostri genitori un gruppo formato da Thelonious Monk, Sonny Rollins e Art Blakey più alcuni altri neri assai poco raccomandabili – i musicisti jazz erano poco più che tossici per l’opinione pubblica – che suonano nel vostro salotto mentre voi li registrate, e avrete l’idea di cosa potessero essere quei giorni. Ne nasceva un suono caldo, pieno, intimo, con un sottile riverbero che lo caricava di elettricità. Magari non era un suono perfetto ma molti lo amavano, e qualcuno anche lo odiava: Mingus ad esempio rifiutò sempre di farsi registrare da lui. Eppure Van Gelder era talmente sicuro di quel suono che, un certo punto, dovendo lasciare la casa dei suoi, si costruì uno studio che era la copia esatta del suo salotto, apposta per mantenerne intatta l’atmosfera e probabilmente il brivido dei primi anni di quell’avventura. Fra l’altro, proprio in virtù di quel suono, nel 1998 chiesero a lui di registrare i pezzi usati come soundtrack di Cowboy Bebop, perché nella fantasia degli autori dell’anime, se c’era un sound jazz che poteva viaggiare fra le stelle, doveva essere il suo. 

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