mercoledì 2 gennaio 2019

di galli da combattimento e di cani randagi

“Sono stufa di parole e di riflessioni,” disse [la donna]. La sua voce andava facendosi cupa per la collera. “Ne ho piene le scatole di rassegnazione e di dignità.” Il colonnello non mosse un muscolo. “Venti anni ad aspettare gli uccellini colorati che ti hanno promesso dopo ogni elezione e di tutto questo non ci resta che un figlio morto,” continuò la donna. “Nient’altro che un figlio morto.”


Quando ero più piccolo Nessuno scrive al colonnello, scritto da Gabriel García Marquez nel 1957, era un romanzo molto più che perfetto, era il libro che per certi versi (rapidità, nitidezza, intensità poetica ed efficacia dei dialoghi) avrei voluto scrivere io.
Rileggendolo stasera mi è sembrato di vedere nel vecchio colonello senza pensione, in questo personaggio che non vuole arrendersi nemmeno di fronte all’evidenza, solo davanti alle istituzioni, talvolta sporcandosi le mani per bisogno, ma che attua una costante e cocciuta opposizione, mantenendo intatta una ferrea e inarrestabile determinazione persino nella tragicità e nell’inadeguatezza che a tratti si fa caricaturale, determinazione che trova una causa, la possibilità di un riscatto, nell’amore per il ricordo di un figlio ucciso, ecco, rileggendolo mi è sembrato di vedere nel vecchio colonello dei tratti in comune col Giovanni Vivaldi di Un borghese piccolo piccolo scritto da Vincenzo Cerami nel 1976 e subito dopo portato sullo schermo da Mario Monicelli con protagonista Alberto Sordi. 
La differenza fra i due personaggi, ovviamente, la fanno i vent’anni di differenza fra le loro scritture. Lì dove il riscatto del colonello (ex rivoluzionario di una rivoluzione mancata) resta ipotetico, ideale fino alla fine, e si muove ancora e sempre su un piano altissimo e simbolico: la vittoria dell’annuale duello fra i galli nell’arena dove l’anno prima ha perso la vita suo figlio (vittoria che assumerebbe una connotazione positiva per l’intera cittadinanza) per la quale sacrifica tutto, persino il suo cibo con cui nutre il proprio gallo da combattimento; quello del borghese di Cerami si intride degli umori degli anni di piombo, si corrompe e si imbruttisce fino al punto di perdere qualsiasi fiducia nelle istituzioni, trasformando la vittima in aguzzino, l’ingranaggio in cellula impazzita e pronta al rapimento e alla tortura, all’uso della violenza gratuita sull’assassino del figlio, pur di compiere la propria vendetta, che non è più riscatto ma la sua degenerazione: un giustizialismo che non guarda più agli interessi della comunità ma esclusivamente al soddisfacimento delle proprie pulsioni sanguinarie, lì dove non è più possibile distinguere un mostro dall’altro e dove – come scriveva acutamente Leonardo Sciascia –, nell’esaltazione di tali pulsioni come “male minore” e necessario al contenimento del disordine sociale, si nasconde ancora una volta il seme del fascismo. Ma qui si va già oltre il libro e il borghese di Cerami si salva di fronte al lettore perché ispira una pietà che non è più umana, la pietà dei cani randagi, a cui non resta più nulla, soltanto seppellire le ossa del male compiuto e intascare la propria pensione. 


Per questo, pur nella disperata drammaticità espressa da entrambi i libri, quello del colonello emana una luminosità, una purezza e una tensione ideale che resta insuperata e che mi pare la nostra letteratura del ‘900, assai più politicizzata in senso nero o rosso e pronta alla tragedia o al fatalismo, non è riuscita a esprimere, se non forse nel Pereira di Antonio Tabucchi, la cui vicenda è ambientata a Lisbona. Però, se ce ne sono altri a cui non ho pensato ditemi pure, che forse mi sbaglio io per ignoranza.

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