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lunedì 4 ottobre 2021

il condono

Oggi su Telenorba hanno dato un servizio giornalistico sulla questione del mio paese che non revoca la cittadinanza a Mussolini. Intervistati dalla giornalista due esponenti politici, Giovanni Oliva (opposizione) e Vito Speciale (vicesindaco, ma probabilmente futuro sindaco) e alcuni miei concittadini. Vito Speciale ha dato una risposta degna di un romanzo di Sciascia: "Abbiamo indagato e non ci risulta che lo abbia fatto qualcun altro" per cui, non risultando, non lo facciamo nemmeno noi. Un po' più tristi le risposte dei miei concittadini, i quali hanno confermato la decisione presa dai rappresentanti politici. La cosa tremenda sono state le motivazioni addotte: "Non si cambia il passato e ciò che è fatto è fatto". Che non è più nemmeno mentalità fascista, ma proprio mentalità da condono edilizio. Tu falla la cosa che una volta fatta non la togli più, devi solo stare zitto e aspettare il prossimo condono. Funziona così. Basta affacciarsi da un qualsiasi balcone per vedere come funziona, dove ha portato. E non so davvero cosa sia peggio per noi.

mercoledì 28 luglio 2021

sciascia

Stamattina mi sono svegliato con questa domanda in testa: che cosa direbbe Sciascia di tutto questo? Ecco, Sciascia sono sicuro, mi direbbe: devi leggere Manzoni! È tutto scritto lì. Mannaggia la miseria io di Manzoni non mi ricordo niente, l'ho rimosso, o non ho più risposte o non le voglio.

sabato 31 ottobre 2020

il nemico

Ci sono poesie che hanno bisogno di un nemico per vivere, di un antagonista contro cui scagliarsi come pietre. Alcune delle poesie più belle di Sanguineti, contenute in POSTKARTEN (1972-1977), sono così. In particolare, verso la fine, ce ne sono due, una accanto all’altra, contro Montale e Sciascia, esponenti di un’Italia vecchia da stracciare. Sanguineti che era militante integrato nel PCI voleva fortemente, sulla linea di Berlinguer e insieme ad altri come Calvino, che il partito potesse andare al Governo, muovendosi di conseguenza, persino coi compromessi, perché – diceva – solo operando dall'interno si potevano cambiare in meglio le cose. In questo modo si scontrava con un'altra ala degli intellettuali di sinistra, con Fortini e Sciascia, i quali ritenevano che l'unica maniera pulita di fare politica, in uno Stato come il nostro, fosse quella di non compromettersi in nessun modo col potere e continuare a fare opposizione dall’esterno, fare letteralmente i cani da guardia del sistema. Ne scaturì, su L’Espresso, uno scambio di opinioni educato ma non pacifico con Sciascia, in cui maturò una rottura fra i due. E Montale? Montale, inconsapevolmente, fu all’origine di quello scontro. Intervistato in merito al processo alle Brigate Rosse per cui sedici dei giurati chiamati a far parte dell’assise si dichiararono, con tanto di certificato medico, inabili all’incarico, coerentemente con la propria filosofia di vita il poeta disse che da un certo punto di vista lui capiva quelle persone perché anche lui, da cittadino, avrebbe avuto paura. Ne scaturì una querelle per cui da una parte gli integrati del PCI gli rimproveravano la vigliaccheria (avrebbe dovuto invece dire, da intellettuale e senatore, che prima di tutto veniva il dovere verso lo Stato, perché “lo Stato siamo noi”, come scrisse Cavino), e dall’altra gli eretici che difesero Montale il quale aveva espresso il timore del cittadino comune proprio di fronte ai mali di uno Stato di cui non solo non si riconosce come parte, ma che anzi ti è nemico, antagonista. Chi aveva ragione e chi torto? Entrambi e nessuno, mi pare. Perché, se è vero che Sanguineti aveva ragione nel principio – non si può fare opposizione a vita, lasciando sempre agli altri la possibilità di decidere anche per te –, è anche vero che la nostra storia ha dato ragione a Sciascia. Ma ancora, va detto che se c’è stato un intellettuale che voleva fare una rivoluzione per essere meglio integrato con gli altri fu proprio Sanguineti, il quale non riuscì mai né a fare una rivoluzione, né a integrarsi in niente e con nessuno, troppo colto per mettersi alla pari con le classi operaie per cui faceva politica, che manco capivano la sua lingua, e troppo militante per trovare una mediazione possibile con chi parlava la sua stessa lingua ma non condivideva l’uguale integralismo politico. (E infatti, non a caso, il suo antagonista per eccellenza, fu l’amato-odiato Pasolini, che gli era tanto più simile nel rigore, nella solitudine e nelle pulsioni di morte di quanto Sanguineti stesso avrebbe mai voluto/potuto ammettere).

mercoledì 19 giugno 2019

naufragi

Oggi leggendo di Ungaretti nelle tracce di maturità ho pensato che (anche se è vero che il divario fra ciò che siamo e quello che scriviamo e dunque come ci raccontiamo è sempre più ampio) sia stata proprio una bella scelta, assai in linea coi tempi se si pensa che L'allegria è in fondo il diario di un affricano figlio di migranti italiani che arriva in Italia per cercare fortuna e viene catapultanto nel disastro umano della prima guerra dove si barcamena giorno per giorno per restare in vita (Allegria di naufragi era il primo titolo, di chi deve mantenersi allegro, vivo, persino di fronte al naufragio suo e della sua epoca). Oggi certo non c'è una guerra effettiva, ma il naufragio c'è tutto e lo avvertiamo. Quanto a Sciascia, anche se è un autore che amo, Il giorno della civetta è carino ma ancora molto "romanzato". Aspetto il giorno in cui qualcuno avrà le palle di proporre il Sciascia degli anni '70, quello del Contesto o di Todo modo o di Nero su nero, quello tragico della fine dello Stato, anche se dubito che i ragazzi che si fermano nei programmi alla seconda guerra, potrebbero mai capirci qualcosa. Poi ci si chiede dove nasce il disinteresse e il diasmore per la politica, la fine dello Stato appunto.

venerdì 22 febbraio 2019

come un veleno

"La Tav si farà" dice sicuro Salvini che oramai, avendo vinto su tutta la linea nel suo confronto con i Cinquestelle, si prepara idealmente a diventare futuro premier. "Chi lo vota uno così?" si chiedono in tanti. Eppure, solo un anno fa la Lega era un partito in bancarotta, colpevole di aver derubato lo Stato per 49 milioni di euro. E ho visto io stesso Salvini, appena sei anni fa, preso a uova marce in una piazza del Sud dove poi ha preso voti. Oggi lo stesso Salvini è lì indisturbato e quasi ammirato a far le sue cose, c'è chi lo indica come un leader, Bossi passa per uno statista, e si discute di secessione da Nord a Sud. Dopo il quasi ventennio di Berlusconi, colluso con la mafia, Salvini, leader di un partito di ladri, continua a corrodere e disgregare il nostro tessuto sociale per meglio spezzarci il collo, arrivati al dunque. Confermando come questo nostro Stato, avendo perso qualsiasi fiducia in se stesso e nel proprio futuro, si affida ormai a una manica di criminali per farsi meglio ammazzare dall'interno, come un veleno. Proprio come succede in un certo romanzo di Sciascia che diceva tutto a tutti senza venir creduto, additato anzi come disfattista. Sciascia che giustamente non viene studiato a scuola non perché meridionale (come insinuano, ma figurati se è vero), quanto perché ciò che scrive, una volta compreso, spaventerebbe a morte i ragazzi.

mercoledì 2 gennaio 2019

di galli da combattimento e di cani randagi

“Sono stufa di parole e di riflessioni,” disse [la donna]. La sua voce andava facendosi cupa per la collera. “Ne ho piene le scatole di rassegnazione e di dignità.” Il colonnello non mosse un muscolo. “Venti anni ad aspettare gli uccellini colorati che ti hanno promesso dopo ogni elezione e di tutto questo non ci resta che un figlio morto,” continuò la donna. “Nient’altro che un figlio morto.”


Quando ero più piccolo Nessuno scrive al colonnello, scritto da Gabriel García Marquez nel 1957, era un romanzo molto più che perfetto, era il libro che per certi versi (rapidità, nitidezza, intensità poetica ed efficacia dei dialoghi) avrei voluto scrivere io.
Rileggendolo stasera mi è sembrato di vedere nel vecchio colonello senza pensione, in questo personaggio che non vuole arrendersi nemmeno di fronte all’evidenza, solo davanti alle istituzioni, talvolta sporcandosi le mani per bisogno, ma che attua una costante e cocciuta opposizione, mantenendo intatta una ferrea e inarrestabile determinazione persino nella tragicità e nell’inadeguatezza che a tratti si fa caricaturale, determinazione che trova una causa, la possibilità di un riscatto, nell’amore per il ricordo di un figlio ucciso, ecco, rileggendolo mi è sembrato di vedere nel vecchio colonello dei tratti in comune col Giovanni Vivaldi di Un borghese piccolo piccolo scritto da Vincenzo Cerami nel 1976 e subito dopo portato sullo schermo da Mario Monicelli con protagonista Alberto Sordi. 
La differenza fra i due personaggi, ovviamente, la fanno i vent’anni di differenza fra le loro scritture. Lì dove il riscatto del colonello (ex rivoluzionario di una rivoluzione mancata) resta ipotetico, ideale fino alla fine, e si muove ancora e sempre su un piano altissimo e simbolico: la vittoria dell’annuale duello fra i galli nell’arena dove l’anno prima ha perso la vita suo figlio (vittoria che assumerebbe una connotazione positiva per l’intera cittadinanza) per la quale sacrifica tutto, persino il suo cibo con cui nutre il proprio gallo da combattimento; quello del borghese di Cerami si intride degli umori degli anni di piombo, si corrompe e si imbruttisce fino al punto di perdere qualsiasi fiducia nelle istituzioni, trasformando la vittima in aguzzino, l’ingranaggio in cellula impazzita e pronta al rapimento e alla tortura, all’uso della violenza gratuita sull’assassino del figlio, pur di compiere la propria vendetta, che non è più riscatto ma la sua degenerazione: un giustizialismo che non guarda più agli interessi della comunità ma esclusivamente al soddisfacimento delle proprie pulsioni sanguinarie, lì dove non è più possibile distinguere un mostro dall’altro e dove – come scriveva acutamente Leonardo Sciascia –, nell’esaltazione di tali pulsioni come “male minore” e necessario al contenimento del disordine sociale, si nasconde ancora una volta il seme del fascismo. Ma qui si va già oltre il libro e il borghese di Cerami si salva di fronte al lettore perché ispira una pietà che non è più umana, la pietà dei cani randagi, a cui non resta più nulla, soltanto seppellire le ossa del male compiuto e intascare la propria pensione. 


Per questo, pur nella disperata drammaticità espressa da entrambi i libri, quello del colonello emana una luminosità, una purezza e una tensione ideale che resta insuperata e che mi pare la nostra letteratura del ‘900, assai più politicizzata in senso nero o rosso e pronta alla tragedia o al fatalismo, non è riuscita a esprimere, se non forse nel Pereira di Antonio Tabucchi, la cui vicenda è ambientata a Lisbona. Però, se ce ne sono altri a cui non ho pensato ditemi pure, che forse mi sbaglio io per ignoranza.

martedì 25 aprile 2017

ritorno

È il 25 aprile: giorno in cui si celebra la liberazione dal nazifascismo. La marea della retorica sale. La Resistenza al nazifascismo, valore indistruttibile quanto il rispetto della Democrazia Cristiana ad Aldo Moro, viene invocata e trasposta come resistenza alle trattative per salvare la vita di Moro. Il guaio è che quella Resistenza è un valore indistruttibile anche per le Brigate rosse: credono di esserne i figli, di continuarla o di ripeterla. Nessuno ha spiegato loro che non si trattava di una rivoluzione lasciata a mezzo e con la riserva di riaccenderla a più conveniente momento, ma di un ritorno invece: di un ritorno all’Italia prefascista – e col paradosso della continuità giuridica con l’Italia fascista – in cui, in qualche modo, a tentoni, ad improvvisazione, si sarebbe tenuto conto delle idee, dei fatti, delle cose nuove e migliori che intanto correvano nel mondo. 

[Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Adelphi 1983]