Ci sono poesie che hanno bisogno di un nemico per vivere, di un antagonista contro cui scagliarsi come pietre. Alcune delle poesie più belle di Sanguineti, contenute in POSTKARTEN (1972-1977), sono così. In particolare, verso la fine, ce ne sono due, una accanto all’altra, contro Montale e Sciascia, esponenti di un’Italia vecchia da stracciare. Sanguineti che era militante integrato nel PCI voleva fortemente, sulla linea di Berlinguer e insieme ad altri come Calvino, che il partito potesse andare al Governo, muovendosi di conseguenza, persino coi compromessi, perché – diceva – solo operando dall'interno si potevano cambiare in meglio le cose. In questo modo si scontrava con un'altra ala degli intellettuali di sinistra, con Fortini e Sciascia, i quali ritenevano che l'unica maniera pulita di fare politica, in uno Stato come il nostro, fosse quella di non compromettersi in nessun modo col potere e continuare a fare opposizione dall’esterno, fare letteralmente i cani da guardia del sistema. Ne scaturì, su L’Espresso, uno scambio di opinioni educato ma non pacifico con Sciascia, in cui maturò una rottura fra i due. E Montale? Montale, inconsapevolmente, fu all’origine di quello scontro. Intervistato in merito al processo alle Brigate Rosse per cui sedici dei giurati chiamati a far parte dell’assise si dichiararono, con tanto di certificato medico, inabili all’incarico, coerentemente con la propria filosofia di vita il poeta disse che da un certo punto di vista lui capiva quelle persone perché anche lui, da cittadino, avrebbe avuto paura. Ne scaturì una querelle per cui da una parte gli integrati del PCI gli rimproveravano la vigliaccheria (avrebbe dovuto invece dire, da intellettuale e senatore, che prima di tutto veniva il dovere verso lo Stato, perché “lo Stato siamo noi”, come scrisse Cavino), e dall’altra gli eretici che difesero Montale il quale aveva espresso il timore del cittadino comune proprio di fronte ai mali di uno Stato di cui non solo non si riconosce come parte, ma che anzi ti è nemico, antagonista. Chi aveva ragione e chi torto? Entrambi e nessuno, mi pare. Perché, se è vero che Sanguineti aveva ragione nel principio – non si può fare opposizione a vita, lasciando sempre agli altri la possibilità di decidere anche per te –, è anche vero che la nostra storia ha dato ragione a Sciascia. Ma ancora, va detto che se c’è stato un intellettuale che voleva fare una rivoluzione per essere meglio integrato con gli altri fu proprio Sanguineti, il quale non riuscì mai né a fare una rivoluzione, né a integrarsi in niente e con nessuno, troppo colto per mettersi alla pari con le classi operaie per cui faceva politica, che manco capivano la sua lingua, e troppo militante per trovare una mediazione possibile con chi parlava la sua stessa lingua ma non condivideva l’uguale integralismo politico. (E infatti, non a caso, il suo antagonista per eccellenza, fu l’amato-odiato Pasolini, che gli era tanto più simile nel rigore, nella solitudine e nelle pulsioni di morte di quanto Sanguineti stesso avrebbe mai voluto/potuto ammettere).
2 commenti:
Entrare nel "Palazzo" o bruciarlo... a volte non serve cambiar mobilio o peggio ancora tenere il vecchio. Di fronte al Palazzo letterario Sanguineti aveva mal assorbito la lezione gramsciana
mi sa di sì (non fu nemmeno il solo)...
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