C’è una storia bellissima e celebre di Ennio Flaiano che all’inizio del 1970 viene contattato da Rizzoli per una nuova collana di monografie d’artisti prefate da scrittori. Gli viene chiesto di occuparsi della monografia di Paolo Uccello. Flaiano, ex studente di architettura, accetta subito l’incarico. Il 9 febbraio, con la scadenza del pezzo alle porte, prende il treno e va a Firenze per documentarsi e vedere dal vivo le opere dell’artista. Ma gli va male, come annota nel suo diario: «Ricerca di Paolo Uccello. Gli Uffizi chiusi, il Grotto Verde di S. Maria Novella in restauro». Si fa dunque un giro in città per respirare l’aria di Firenze «sotto un vento allegro», poi da Alinari, prima di riprendere il treno, acquista una serie di cartoline con le opere che non ha visto di Paolo Uccello. Tornato a Roma, dispone le cartoline sul suo letto e, guardando in particolare quella con l’autoritratto del pittore (conservato al Louvre), comincia a dialogare con lui; s’inventa così un’intervista impossibile che spaziando nel tempo e nei luoghi, e anticipando quella che poi sarà un’attitudine del postmoderno, innesta nelle risposte di Paolo Uccello citazioni di Mondrian, Proust, Laforgue, Picasso, Morandi, ecc., facendolo parlare come loro e loro come lui, e affrontando in tal modo alcuni temi fondamentali legati al senso ultimo dell’arte, alla visione del mondo di ogni artista riassunta nel concetto stesso di prospettiva, all’etica del lavoro artigianale, al rapporto col pubblico e alla scelta di vivere una vita che ha al suo centro l’ideale per “il minore”. «Uso, amore, arte e grazia insegnano ogni cosa» dice Paolo Uccello a Flaiano, citando a un tempo Shakespeare e Jacopone da Todi. E ancora, in chiusura, citando La Bruyère ma parlando proprio a me: «È un mestiere fare un libro, come fare una pendola».
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