Ieri sera leggevo un libro assai bello di Domenico Starnone, "Fare scene. Una storia di cinema" (minimum fax, 2013) che parla delle difficoltà che deve affrontare uno sceneggiatore, diviso fra istanze "artistiche" ed ego del regista ed esigenze commerciali del produttore. Nel libro, per ben tre volte, il regista e lui, che si sono innamorati di una causa: la storia vera di un operaio che per problemi sul lavoro si impicca, e vogliono raccontare quella storia, devono scontrarsi coi produttori (privati ma anche la Rai) che dicono loro: "A chi cazzo frega ancora degli operai, oggi?" oppure "Gli operai non esistono più!". Riesci proprio a immaginare le loro voci mentre affondano l'impresa in nome dei gusti del pubblico. Alla fine, dopo decine di incontri, litigi, pianti, tesi a trovare un compromesso degno, il copione, nell'impotenza e nel disgusto dello sceneggiatore, viene rimaneggiato, riscritto, il film tagliato, rimontato, fino a diventare un'altra cosa: una storia d'amore ambientata in fabbrica. Il pubblico decreta il successo del film. La critica, pur apprezzando l'interpretazione degli attori e il lavoro di regia, stronca la sceneggiatura come fatua e piena di falle e assurdità. Ecco, leggendola ho pensato che è una storia talmente vera e immediata nei suoi significati, che andava riportata così, senza commento.
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