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lunedì 15 luglio 2024

per la morte della gatta grigia

Dopo 16 anni di vita insieme stamattina è morta la mia gatta grigia con lo sguardo antipatico, a cui non ho mai dato un nome. Era entrata nella mia vita in un giorno d’estate come in un romanzo di Gabriel Garcia Marquez, attraversando la porta di casa e gettandosi in un angolo con un lungo gnac che voleva dire Eccomi a casa, la casa che aveva scelto lei per se stessa, io l’ho accolta e da allora non è più andata via, prendendosi un pezzo alla volta tutto quello che poteva, in ultimo la mia sedia che era diventata la sua. Ho passato gli ultimi due giorni seduto per terra accanto a lei terrorizzata dal buio che veniva, con la mano sulla sua testa per farle sentire che c’ero, le parlavo e lei mi rispondeva a sibili e sospiri, e se mi allontanavo mi chiamava, e quando è morta qualcosa finalmente si è rotto e ho cominciato a piangere insieme tutte le lacrime della nostra amicizia e quelle che non ho mai pianto per la morte di mio padre.

mercoledì 2 gennaio 2019

di galli da combattimento e di cani randagi

“Sono stufa di parole e di riflessioni,” disse [la donna]. La sua voce andava facendosi cupa per la collera. “Ne ho piene le scatole di rassegnazione e di dignità.” Il colonnello non mosse un muscolo. “Venti anni ad aspettare gli uccellini colorati che ti hanno promesso dopo ogni elezione e di tutto questo non ci resta che un figlio morto,” continuò la donna. “Nient’altro che un figlio morto.”


Quando ero più piccolo Nessuno scrive al colonnello, scritto da Gabriel García Marquez nel 1957, era un romanzo molto più che perfetto, era il libro che per certi versi (rapidità, nitidezza, intensità poetica ed efficacia dei dialoghi) avrei voluto scrivere io.
Rileggendolo stasera mi è sembrato di vedere nel vecchio colonello senza pensione, in questo personaggio che non vuole arrendersi nemmeno di fronte all’evidenza, solo davanti alle istituzioni, talvolta sporcandosi le mani per bisogno, ma che attua una costante e cocciuta opposizione, mantenendo intatta una ferrea e inarrestabile determinazione persino nella tragicità e nell’inadeguatezza che a tratti si fa caricaturale, determinazione che trova una causa, la possibilità di un riscatto, nell’amore per il ricordo di un figlio ucciso, ecco, rileggendolo mi è sembrato di vedere nel vecchio colonello dei tratti in comune col Giovanni Vivaldi di Un borghese piccolo piccolo scritto da Vincenzo Cerami nel 1976 e subito dopo portato sullo schermo da Mario Monicelli con protagonista Alberto Sordi. 
La differenza fra i due personaggi, ovviamente, la fanno i vent’anni di differenza fra le loro scritture. Lì dove il riscatto del colonello (ex rivoluzionario di una rivoluzione mancata) resta ipotetico, ideale fino alla fine, e si muove ancora e sempre su un piano altissimo e simbolico: la vittoria dell’annuale duello fra i galli nell’arena dove l’anno prima ha perso la vita suo figlio (vittoria che assumerebbe una connotazione positiva per l’intera cittadinanza) per la quale sacrifica tutto, persino il suo cibo con cui nutre il proprio gallo da combattimento; quello del borghese di Cerami si intride degli umori degli anni di piombo, si corrompe e si imbruttisce fino al punto di perdere qualsiasi fiducia nelle istituzioni, trasformando la vittima in aguzzino, l’ingranaggio in cellula impazzita e pronta al rapimento e alla tortura, all’uso della violenza gratuita sull’assassino del figlio, pur di compiere la propria vendetta, che non è più riscatto ma la sua degenerazione: un giustizialismo che non guarda più agli interessi della comunità ma esclusivamente al soddisfacimento delle proprie pulsioni sanguinarie, lì dove non è più possibile distinguere un mostro dall’altro e dove – come scriveva acutamente Leonardo Sciascia –, nell’esaltazione di tali pulsioni come “male minore” e necessario al contenimento del disordine sociale, si nasconde ancora una volta il seme del fascismo. Ma qui si va già oltre il libro e il borghese di Cerami si salva di fronte al lettore perché ispira una pietà che non è più umana, la pietà dei cani randagi, a cui non resta più nulla, soltanto seppellire le ossa del male compiuto e intascare la propria pensione. 


Per questo, pur nella disperata drammaticità espressa da entrambi i libri, quello del colonello emana una luminosità, una purezza e una tensione ideale che resta insuperata e che mi pare la nostra letteratura del ‘900, assai più politicizzata in senso nero o rosso e pronta alla tragedia o al fatalismo, non è riuscita a esprimere, se non forse nel Pereira di Antonio Tabucchi, la cui vicenda è ambientata a Lisbona. Però, se ce ne sono altri a cui non ho pensato ditemi pure, che forse mi sbaglio io per ignoranza.

domenica 15 marzo 2015

il gioco delle tre carte

Mi sono accorto che da un po', sui link ad alcuni concorsi di poesia che spammano in rete, insieme all'onnipresente Merini compare la foto di Gabriel Garcìa Marquez. Non ho mai saputo che lui scrivesse poesie, eppure, non so come, nel pubblico indifferenziato dei poeti che non leggono poesia ma partecipano ai concorsi, Marquez acchiappa. A questo punto mi chiedo, per essere poeti basta scrivere una qualsiasi cosa e poi morire o bisogna scrivere almeno una bella cosa e poi morire? "Mussolini ha scritto anche poesie", notava acutamente De Gregori, che è conosciuto da tutti, persino dai non poeti. A questa stregua, mi dico, Marquez è tanto poeta quando Mussolini, giusto? E, meritocrazia a parte, chiunque scriva e si senta un pochino poeta può scegliere se sentirsi più affine a Marquez, alla Merini, oppure a Mussolini. In ogni caso invertendosi di posto, come nel gioco delle tre carte, il risultato non cambia.

giovedì 17 aprile 2014

per la morte di marquez

Confesso che gli ultimi libri di Marquez non mi sono mai piaciuti molto, e ho sempre pensato che il suo ultimo libro davvero bello sia stato L’amore ai tempi del colera.
Di Marquez si parlerà sempre come dell’inventore del realismo magico, però devo dire che se dovessi individuare una capacità che aveva come scrittore, era quella di essere un delicatissimo narratore di splendide storie d’amore. Storie in cui il ritorno era sempre possibile, anzi, e l’abbandono necessario a una crescita personale, a una presa di coscienza di sé. In questo Marquez era uno scrittore della speranza, uno dei pochi veri ottimisti del ‘900.
Negli anni ho letto tutte le sue storie, e se dovessi indicare le mie preferite, non sarebbero romanzi ma racconti: La incredibile e triste storia della candida Erendira e della sua nonna snaturata, Morte costante al di là dell’amore, La santa, I funerali della Mamà grande, e poi due racconti lunghi o romanzi brevi di incredibile potenza, Nessuno scrive al colonnello e Cronaca di una morta annunciata. Testi brevi in cui venivano meno certi suoi manierismi che facevano indubbiamente parte del suo linguaggio ma che alla lunga potevano diventare stucchevoli. E poi alcune pagine meravigliose dai suoi romanzi più celebri.
Di tutte queste pagine lette e imparate, divorate a suo tempo, ancora ricordo la commozione che provai, da ragazzino, su una in particolare; commozione che mi portò poi a comprare il resto dei suoi libri e a innamorarmene, quella per il ritorno a casa di Bayardo San Romàn. Pagina che riporto qui, sperando di condividere ancora, con voi, quel sentimento:
“Un mezzogiorno d’agosto, mentre ricamava con le sue amiche, sentì che qualcuno era arrivato alla porta. Non ebbe bisogno di guardare per sapere chi fosse. “Era grasso e gli cominciavano a cadere i capelli, e ormai gli occorrevano gli occhiali per vedere da vicino” mi disse. “Ma era lui, cazzo, era lui!” Si spaventò, perché sapeva che in quel momento lui la vedeva decaduta come lei vedeva lui, e non credeva che avesse dentro tanto amore quanto ne aveva lei per sopportarlo. Aveva la camicia inzuppata di sudore, come lo aveva visto la prima volta alla fiera, e portava la stessa cinta e le stesse bisacce di cuoio scucito con ornamenti d’argento. Fece un passo avanti e posò le bisacce sulla macchina da cucire.
“Bene” disse, “eccomi qua.”