Iersera ho letto per caso una poesia della Anedda in cui si rivolge direttamente alla Poesia (alle parole) per fare i conti sul loro rapporto. La Anedda non è la prima a farlo e di sicuro non sarà nemmeno l’ultima, ma mi è venuto in mente che quello poetico è l’unico genere letterario – l’unico che conosca – in cui il poeta non solo dà sfacciatamente del “tu” alla Musa, ma ogni tanto si sente l’ansia o il dovere di scriverle queste sue lettere in versi, a volte accalorate, altre più lamentose, spingendosi fino all’invettiva (“puttanapoesia” la chiamava Antonio Porta), prendendosi la libertà di lavare i loro panni sporchi in pubblico e sfidarla. È una cosa straordinaria secondo me. Quanti romanzieri conosci che, con la stessa disinvoltura, attaccano un loro libro con: “Eccomi romanzo, oggi sono qui per farti il culo…”? Magari glielo fanno anche, ma per dichiararlo così apertamente (a meno di non essere Cervantes) ci vuole una certa sicurezza nei propri mezzi, oppure incoscienza creativa, perché davvero si rischia di apparire ridicoli. Eppure il poeta, la cui poesia dura meno di un lampo, se ne frega del ridicolo, e infatti alla Poesia le scrive senza troppi problemi. C’è da dire che la Poesia, di suo, non risponde mai.
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