giovedì 24 agosto 2023

registrazione da campo in un monolocale

 

Ventitré anni dopo le ultime incisioni in una stanza d’albergo di Robert Johnson e ventitré anni prima della registrazione casalinga di “Nebraska” di Bruce Springsteen, c’è questo disco registrato nel 1959 da Lightnin’ Hopkins, bluesman texano maledetto e dalla vita disordinata, che dopo aver vagabondato per locali per tutti gli anni ’40 aveva deciso di farla finita con la musica ed era scomparso dalla circolazione alcuni anni prima. Venne ritrovato dopo una lunga ricerca da Sam Charters, un suo ammiratore. Viveva in un monolocale a Houston campando alla giornata e venne convinto, in cambio una bottiglia di gin, a registrare lì sul posto, voce e chitarra, alcuni pezzi blues su un registratore portatile. Fu una registrazione da campo in un monolocale. Sono blues secchi, asciutti, molto intimi nell’atmosfera ma privi di qualsiasi speranza nei testi. La registrazione è povera ma pulita, dura appena mezz’ora. Ne venne fuori, insomma, uno dei più bei dischi di blues di sempre perché alimentava la leggenda di una maledizione che non poteva estinguersi se non quando la si raccontava cantando. L’album, che in copertina porta semplicemente il nome del suo autore, uscì al momento giusto (durante l’ondata di folk revival che invase l’America agli inizi degli anni ‘60), ebbe un enorme successo e gli dette la spinta per ricominciare a fare musica e salvargli la vita.

Nessun commento: