Wim Wenders mi fa sempre uno strano effetto. Alcuni suoi film sono bellissimi, altri, persi come sono nel loro lento divagare, mi sembrano più che altro noiosi. Così lo rispetto, ma non riesco ad amarlo. So che c’è del metodo in ciò che fa e che lo guida una sana ispirazione poetica, ma certe volte quando questa ispirazione non è messa bene a fuoco, quando cioè non c’è uno sceneggiatore adeguato che lo affianchi, non si capisce dove voglia andare. Anche per questo ho sempre avuto il desiderio di vedere la prima versione di un suo film più famoso per la storia che si porta dietro che per il risultato in sé, “Hammett”, che da ciò che raccontano ha sofferto proprio a causa della sua ambivalenza autoriale. Wenders viene chiamato a dirigerlo da Coppola, dopo aver realizzato uno dei suoi film più belli, “L’amico americano”, però di fronte a un soggetto già scritto che non lo prendeva, l’adattamento di un romanzo giallo di Joe Gores in cui lo scrittore noir viene coinvolto in un fittizio caso investigativo che attinge alle atmosfere dei suoi racconti – quindi utilizzando un procedimento inverso a quello di Hammett, che attingeva alle sue esperienze di vita per scrivere storie di pura invenzione – lo rielabora completamente realizzando un film, tutto girato in presa diretta a Chinatown, sull’eterno rapporto/conflitto fra vita e invenzione e ne tira fuori un’opera che, raccontano, è talmente cerebrale e noiosa che persino Coppola è costretto a bocciarla. E così Wenders, costretto a riscrivere da capo la sceneggiatura, rigira tutto ricostruendo l’intera ambientazione in studio e cambiando l’intero cast all’infuori del protagonista impostogli dalla produzione, un Frederic Forrest immenso, che però Wenders non ama – gli avrebbe preferito Sam Shepard, che poi per lui scrisse “Paris, Texas”. Questo rifiuto, però, lo portò soprattutto a vivere un malessere esistenziale che Wenders traspose in un altro film cupissimo e a tratti avvelenato, “Lo stato delle cose”, e che si portò dietro per quattro anni, fino a che non riuscì a completare un rifacimento soddisfacente della pellicola, vicino ai desideri della produzione e il meno wendersiano dei suoi film, tanto che secondo i maligni ci mise lo zampino lo stesso Coppola. Questo non si sa, ma oggi penso che sarebbe bello vedere anche la prima versione del film così come l’aveva concepita Wenders, ignorando l’aspetto noir e concentrandosi soprattutto sull’Hammett autore. Di quella pare sia stato riutilizzato solo il 10% nel remake, presumibilmente l’intro e l’epilogo del film, lì dove si vede Hammett malato e alcolizzato, seduto alla macchina da scrivere con lo spettro dei propri fantasmi, che batte sui tasti mugugnando, all’inizio e alla fine, le stesse due parole: THE END.
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