«Esistiamo nella stessa misura in cui gli altri hanno facoltà di dimenticarsi di noi» mi ha detto un prete incontrato a guardia della campana. Mi ero perduto in una tappa a caso di un viaggio personale, per il quale prendevo un treno ogni fine settimana e dopo qualche ora di attesa, in cui mi chiudevo in bagno per non guardare il paesaggio, scendevo alla prima stazione utile senza nemmeno sapere il nome della città prescelta. In questo caso, dopo un tragitto assai scomodo, stretto accanto a due donne, madre e figlia che si erano infilate con me per non pagare il biglietto, con la figlia assai molesta che continuava a parlare e agitarsi e pestarmi i piedi senza nemmeno scusarsi, ero finito in un luogo con un grande santuario dai colori caldi che si stagliava altissimo poco lontano dal centro. Attirato lì dalla sua bellezza, sono entrato nell’edificio al cui interno al posto dell’atrio c’era un immenso spazio vuoto e circolare, chiuso in alto e con sospesa al centro una enorme campana di un qualche strano metallo che non rifletteva le luci intorno ma ne emanava una tutta sua, per quanto fioca, ed era incapace di suonare, e tutt’intorno erano dei loggioni per assistere alla sua inerzia come se fossimo a teatro. Centinaia di fedeli o curiosi stavano affacciati sul vuoto in attesa anche solo di un sospiro. E anche io con loro ero finito in ombra in piccionaia con uno dei preti guardiani. «Vedi – mi spiegava – quella campana esiste proprio perché non suona. Se producesse un suono durerebbe talmente poco da spegnersi completamente nel giro di pochi istanti. C’è, ma in potenza, e se realizza quello per cui è nata allora non ha più ragione di essere, in quanto, dopo, è stata. Noi la lasciamo libera di scegliere come dare seguito alla sua esistenza. Infatti, se osservi in alto, non è legata a nessuna corda».
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