Ho molto sperato in questa seconda metà dell’anno, e spero ancora in un colpo di fortuna nell’ultimo mese (ormai, in silenzio, mi sono ridotto a sperare nella fortuna, perché so già che dall’impegno non verrà un bel niente), ma per come si sono messe le cose questo sarà il mio primo anno da editore che chiuderò più povero di come l’ho cominciato. Non ho problemi ad ammetterlo e non sono nemmeno troppo depresso, in realtà; un po’ è stata sfiga, un po’ stanchezza di rincorrere le persone, un po’ me la sono cercata: potevo pubblicare 30 libri e ne ho pubblicati solamente 3. Però, se dopo sette anni di lavoro, basta un solo anno in negativo per mettermi in difficoltà, allora comincio a chiedermi che cosa ho costruito finora, e come, e per chi. Non si può capire, senza viverla, quanto sia tossica e stressante la mancanza di empatia di molti autori, la loro ipersensibilità senza sconti, la loro incapacità di confrontarsi col momento storico, il loro bisogno di rifugiarsi nella scrittura che poi esplode in un assedio senza tregua: Allora mi hai letto? Quando mi pubblichi? Ce la facciamo per Natale? Ma più di tutto mi infastidisce l’ipocrisia di chi ostenta un successo che non c’è, di chi applaude deliziato anche se magari non ha contribuito minimamente a quel successo, il leccaculismo di chi non compra mai un libro, ma continua a ripetere che tutto va bene anche se va male, che tutto è splendido e meraviglioso, che noi (noi) dobbiamo andare avanti a testa alta e sorridere, sorridere sempre, perché noi (noi) sì che stiamo facendo arte, Letteratura. Noi splendidi e con le pezze al culo. La storia della letteratura è piena di morti di fame che piangono miseria per arrivare a fine mese o che, come Dostoevskij, si prostituiscono editorialmente per pagare i debiti. E tutta questa miseria, credo, non ha una briciola di nobiltà, onestamente non mi fa nemmeno ridere.
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