martedì 10 novembre 2020

per carlo, con tanto affetto

Nel suo libro (per me) più bello, Memorie di un rivoluzionario timido, che tanta fiducia mi ha ridato nelle possibilità della scrittura, Carlo Bordini scrive: “Io non immaginavo di entrare in questo luogo allegramente mortuario, in questa selva di epigrafi. E d’altronde, la morte nascondeva le sue ferite…”. Il tema del libro non è affatto la morte, o solo in parte, ma lui come prima cosa ci mette la morte, nella sintesi del romanzo in premessa, perché “rinascere è anche morire”. La cosa bella di Bordini (per me) era questa straordinaria libertà, di pensiero, d’amore, di scrittura – una libertà che una volta gli dissi avevo trovato solo in Bolaño e allora lui mi rispose non ci avevo mai pensato quindi non può che essere così – per cui (per lui) il tempo era qualcosa di plastico, nemmeno circolare, ma proprio plastico. Il tempo si muoveva, si deformava, prendeva delle forme strane. Ecco, una cosa che ho imparato da B. e da quel suo libro è questa: che un finale non deve essere messo necessariamente alla fine. Può stare dove vuole lui, dove ti chiede di finire. Ad esempio, nelle Memorie il finale arriva alla fine della seconda parte, prima dell’intervallo, e tutta la terza parte che viene dopo non è che l’impalcatura di qualcosa in divenire e mai terminato che però finisce davvero nelle considerazioni in premessa, ma non subito subito, a pagina 9. Ecco, ho pensato, magari funziona così anche nella vita. Noi crediamo che uno muore ed è finita lì, e invece quella non è che la fine del secondo tempo, mentre già si profila il terzo tempo di qualcosa di più grande.

 

(PS. Il testo era pieno di errori di battitura e avrei voluto lasciarceli come facevi tu, ma siccome non ce l’ho il tuo coraggio di essere come sono, li ho corretti tutti o quasi).


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