lunedì 2 novembre 2020

le termopili

Una cosa che sto capendo in questi mesi è che per quanto impegno tu ci possa mettere, o dedizione alla qualità, questi non basteranno mai a tenerti in piedi come editore di poesia, perché quello che manca non è né la dedizione né la qualità, e nemmeno i bravi poeti, ma il pubblico che compra i libri. Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, fare “proposte molto concrete” (Brecht), ma se persino gli addetti a lavori dovendo scegliere fra un libro in versi o uno in prosa sceglieranno la prosa, se dovendo scegliere fra il libro in versi di un vivente e un classico sceglieranno il classico, la strada è segnata. Persino se riscuoti la fiducia dei lettori. Ieri ad esempio una mia follower mi chiedeva: “mi consigli un libro da leggere? Non di poesia però” e così le ho consigliato il libro di un altro editore. Ecco, così è tutta la mia vita editoriale. C’è un pubblico della poesia? Sì che c’è, sta lì come l’esercito spartano alle Termopili. Resiste all’avanzata del nemico, è straordinario nel suo coraggio, ma sempre di 300 persone si tratta. Ecco allora che comincio seriamente a pensare che la poesia, e l’editoria di poesia, proprio come il teatro e altri linguaggi artistici minoritari, andrebbero sovvenzionati con contributi pubblici specifici, se vogliamo riconoscergli una dignità d'arte unica e fondamentale. Perché oggi la poesia, così come la vivo sulla mia pelle di editore, è considerata un genere “non indispensabile allo sforzo produttivo” per dirla come Toti. Ci si indigna tanto, a parole, per la volgarità della definizione, si scrivono post infuocati e sprezzanti, ma la sostanza agli occhi dei lettori, di moltissimi librai e del mio commercialista è quella.

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