Una
cosa che sto capendo in questi mesi è che per quanto impegno tu ci
possa mettere, o dedizione alla qualità, questi non basteranno mai a
tenerti in piedi come editore di poesia, perché quello che manca non è
né la dedizione né la qualità, e nemmeno i bravi poeti, ma il pubblico
che compra i libri. Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, fare
“proposte molto concrete” (Brecht), ma se persino gli addetti a lavori
dovendo scegliere fra un libro in versi o uno in prosa sceglieranno la
prosa, se dovendo scegliere fra il libro in versi di un vivente e un
classico sceglieranno il classico, la strada è segnata. Persino se
riscuoti la fiducia dei lettori. Ieri ad esempio una mia follower mi
chiedeva: “mi consigli un libro da leggere? Non di poesia però” e così
le ho consigliato il libro di un altro editore. Ecco, così è tutta la
mia vita editoriale. C’è un pubblico della poesia? Sì che c’è, sta lì
come l’esercito spartano alle Termopili. Resiste all’avanzata del
nemico, è straordinario nel suo coraggio, ma sempre di 300 persone si
tratta. Ecco allora che comincio seriamente a pensare che la poesia, e
l’editoria di poesia, proprio come il teatro e altri linguaggi artistici
minoritari, andrebbero sovvenzionati con contributi pubblici specifici,
se vogliamo riconoscergli una dignità d'arte unica e fondamentale.
Perché oggi la poesia, così come la vivo sulla mia pelle di editore, è
considerata un genere “non indispensabile allo sforzo produttivo” per
dirla come Toti. Ci si indigna tanto, a parole, per la volgarità della
definizione, si scrivono post infuocati e sprezzanti, ma la sostanza
agli occhi dei lettori, di moltissimi librai e del mio commercialista è
quella.
Poesie, pensieri e fotografie di Vitantonio Lillo-Tarì de Saavedra, in arte Antonio Lillo ovvero Antonio Hammett
lunedì 2 novembre 2020
le termopili
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