domenica 29 novembre 2020

nemici

Leggo con grande interesse una intervista a Nicola Crocetti sulla Lettura del Corriere del 15 novembre scorso, che mi ha consigliato Angela, in cui Crocetti spazia su vari campi della poesia. Dalla sua utilità pratica di serbatoio a cui attingere e in cui salvaguardare lemmi, idiomi, espressioni, proverbi e canti popolari che altrimenti verrebbero letteralmente cancellati dalla globalizzazione (questo la poesia lo ha sempre fatto); al gran numero di persone che oggi scrivono e inviano alle redazioni, un dato che anche lui legge in chiave positiva perché, al di là dell’educazione al verso, significa che c’è vivo interesse per tale linguaggio; ma interesse che cozza contro il totale disinteresse delle istituzioni e di un mecenatismo colto (nel paese di Olivetti). Ma pure leggo questo passaggio che è rivelatore: «CROCETTI: Io ho 80 anni e ho tradotto più di 100 mila versi dal greco, ho pubblicato 3.300 poeti e più di 60 mila poesie da 38 lingue. Un risultato che oggi mi riempie di soddisfazione ma che mi ha anche portato 70 mila nemici. INTERVISTATORE: E chi sono i 70 mila nemici di Nicola Crocetti? CROCETTI: Gli autori di tutti i manoscritti che ho rifiutato». Quindi, mi dico, non sono il solo ad avvertire quest’aura di negatività, di malevolenza e intrighi, per cui se non assecondi determinati meccanismi, certi scambi di favore, sei soggetto all’astio e all’esclusione. Ma non è tremendo e assurdo tutto questo guerreggiare fra poveri che si sbranano in nome della poesia? Eppure, prendo a prestito un libro che sto leggendo in questi giorni, “Jisei, Poesie dell’addio” curato da Ornella Civardi per SE, ovvero poesie scritte in punto di morte, e considero che la maggior parte di questi testi così effimeri e delicati, fiori leggerissimi tesi verso il nulla, sono scritti da soldati: gente d’armi avvezza al sangue alla violenza e sul punto di cadere sotto la lama nemica, che ha vissuto in epoche di grande precarietà e incertezza, dove le uniche regole sono state la fame e l’affermazione personale. Un mondo fatto di lupi. Forse la chiave di tanto splendore, mi dico, e il continuo bilico, la tensione verso l’abisso, l’estrema pulsione negativa che viene disinnescata nei versi, e che altrimenti si esprimerebbe nel suicidio, o nella violenza (anche masochistica) e nell’omicidio, perpetrati in vista di un potere più o meno fugace, ma che soddisfi quel vuoto. Probabilmente è vero che i poeti migliori sono anche, fondamentalmente, degli stronzi.

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