Leggo
con grande interesse una intervista a Nicola Crocetti sulla Lettura del
Corriere del 15 novembre scorso, che mi ha consigliato Angela, in cui
Crocetti spazia su vari campi della poesia. Dalla sua utilità pratica di
serbatoio a cui attingere e in cui salvaguardare lemmi, idiomi,
espressioni, proverbi e canti popolari che altrimenti verrebbero
letteralmente cancellati dalla globalizzazione (questo la poesia lo ha
sempre fatto); al gran numero di persone che oggi scrivono e inviano
alle redazioni, un dato che anche lui legge in chiave positiva perché,
al di là dell’educazione al verso, significa che c’è vivo interesse per
tale linguaggio; ma interesse che cozza contro il totale disinteresse
delle istituzioni e di un mecenatismo colto (nel paese di Olivetti). Ma
pure leggo questo passaggio che è rivelatore: «CROCETTI: Io ho 80 anni e
ho tradotto più di 100 mila versi dal greco, ho pubblicato 3.300 poeti e
più di 60 mila poesie da 38 lingue. Un risultato che oggi mi riempie di
soddisfazione ma che mi ha anche portato 70 mila nemici.
INTERVISTATORE: E chi sono i 70 mila nemici di Nicola Crocetti?
CROCETTI: Gli autori di tutti i manoscritti che ho rifiutato». Quindi,
mi dico, non sono il solo ad avvertire quest’aura di negatività, di
malevolenza e intrighi, per cui se non assecondi determinati meccanismi,
certi scambi di favore, sei soggetto all’astio e all’esclusione. Ma non
è tremendo e assurdo tutto questo guerreggiare fra poveri che si
sbranano in nome della poesia? Eppure, prendo a prestito un libro che
sto leggendo in questi giorni, “Jisei, Poesie dell’addio” curato da
Ornella Civardi per SE, ovvero poesie scritte in punto di morte,
e considero che la maggior parte di questi testi così effimeri e delicati,
fiori leggerissimi tesi verso il nulla, sono scritti da soldati: gente
d’armi avvezza al sangue alla violenza e sul punto di cadere sotto la
lama nemica, che ha vissuto in epoche di grande precarietà e
incertezza, dove le uniche regole sono state la fame e l’affermazione
personale. Un mondo fatto di lupi. Forse la chiave di tanto splendore,
mi dico, e il continuo bilico, la tensione verso l’abisso, l’estrema
pulsione negativa che viene disinnescata nei versi, e che altrimenti si
esprimerebbe nel suicidio, o nella violenza (anche masochistica) e
nell’omicidio, perpetrati in vista di un potere più o meno fugace, ma
che soddisfi quel vuoto. Probabilmente è vero che i poeti migliori sono
anche, fondamentalmente, degli stronzi.
Poesie, pensieri e fotografie di Vitantonio Lillo-Tarì de Saavedra, in arte Antonio Lillo ovvero Antonio Hammett
domenica 29 novembre 2020
nemici
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