domenica 20 dicembre 2020

finzione

Identificazione di una donna di Michelangelo Antonioni è probabilmente il suo film meno riuscito. Ho letto in rete delle recensioni tremende. Io personalmente non l'ho trovato così brutto. Per quanto sia discontinuo, lì dove il regista ritrova il suo smalto poetico, diventa un film assai malinconico e di un certo fascino sull'impossibilità di rinunciare al desiderio (inteso come anelito alla vita) anche di fronte all'evidenza della sua fugacità, che mi ha fatto pensare, per sentimento ed esiti, a Di là dal fiume e tra gli alberi di Hemingway.

Una delle critiche più forti che – ho letto – gli viene mossa dai critici, riguarda la sciatteria intrisa di retorica di certi dialoghi, la sua vicinanza all’estetica televisiva del melodramma e persino l’accento di Tomas Milian che non viene doppiato e quindi risulta stonato, assai poco “in parte”. Tutto vi suona insopportabilmente falso. Ecco, ricordando i miei studi d’arte, mi è venuto da pensare a Tiepolo i cui cieli erano di un azzurro talmente azzurro da risultare a volte stucchevoli, da svelare immediatamente la propria finzione. E così mi è venuto da pensare: e se Antonioni, dunque, lo avesse fatto apposta? Se avesse creato, cioè, un film che nemmeno provasse ad essere mimetico – caratteristica che sempre più diventa imprescindibile oggi: l’aderenza al vero, la prossimità al plausibile – ma al contrario svelasse immediatamente il meccanismo della propria finzione, ma non finzione consolatoria, piuttosto una finzione talmente finta da non consolare affatto, da mostrare – poiché il cinema è riflesso della vita e la vita è riflesso della televisione (Woody Allen) – come spesso sia proprio la nostra stessa vita a essere antiestetica, sciatta, costruita persino nei sentimenti, intrisa di retorica e a tratti ignobilmente sbagliata.

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