Stamattina leggevo un pezzo di Paolo Di Stefano (titolo: Un appello ai poeti per ricominciare) in cui, nel centenario della nascita di Tonino Guerra, a Santarcangelo di Romagna alcuni ragazzi hanno organizzato degli “assalti poetici” offerti ai contadini del luogo, recitando loro dei versi di Guerra stesso e di Majakovskij. A me, leggendo, è venuta in mente l’immagine di uno che ti entra in casa per leggerti una poesia e tu contadino imbracci il fucile da caccia per difenderti dall’intruso. È vero che se Maometto non va alla montagna, la montagna dovrà pur andare da Maometto, ma è anche vero che se non troviamo un modo per sedurli questi contadini, convincerli a riavvicinarsi a qualcosa che in fondo era già loro prima che nostro – la poesia in quanto forma di racconto orale, che un tempo si faceva non solo nei palazzi signorili, ma anche nelle stalle, durante la veglia, per passare le lunghe serate d’inverno mentre ci si scaldava col fiato degli animali (quello che Zanzotto chiamava Filò) – servirà a ben poco andare a sostituire gli auto-parlanti al supermercato cercando di convincerli che la roba che ascoltano è buona. Ancora una cosa. Di Stefano nota che durante il discorso sulla conclusione della Brexit, Ursula von der Leyen abbia infilato nel discorso a Boris Johnson ben due citazioni di poesie, da Shakespeare e da Eliot. Attenzione: non filosofi, né politici, e nemmeno calciatori. Ma due poeti a commento di un accordo storico. Citare due inglesi ad un inglese è una stoccata d’alta classe, secondo me. Ma questo è successo non perché i politici europei siano mediamente più colti di quelli italiani, anche se probabilmente è vero. Ma perché all’estero si crede ancora che la poesia abbia una connessione con il nostro tempo, abbia cioè la capacità di raccontarlo, e quindi si trovi naturale usarla. Mentre in Italia semplicemente quest’idea si è persa, questo filo (filò) di comunicazione si è spezzato, ma senza venire sostituito da nient’altro. E i risultati si vedono.
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