C’è un grande cane bianco che compare in fondo al campo dietro casa. Salta il muretto di recinzione e si aggira sperduto e smagrito per il campo, con la catena spezzata al collo. Mi impietosisco e decido di preparargli una scodella di latte caldo in cui immergerò dei pezzi di pane duro. Spezzetto il pane con le mani, verso il latte nel pentolino, lo metto sul fuoco, ma proprio mentre sta per bollire suona il telefono. Decido di ignorare la chiamata, e invece, non so perché, vado verso il telefono e afferro la cornetta. Dico pronto, ma non risponde nessuno, anche se so che dall’altra parte c’è qualcuno. Resto fermo così, ripeto pronto. Pronto. Non succede nulla. Intanto mi accorgo che il latte sta bollendo, faccio per spegnerlo con la mano libera, ma quando avvicino la mano alla manopola del gas mi accorgo che manca, manca la mano, non ho altro che il polso liscio e senza alcuna traccia di taglio. Così, privato delle dita, non riesco ad afferrare la manopola del gas e il latte sbotta fuori dal pentolino, sporcando il fornello e spegnendo la fiamma. Allora mi giro verso la finestra e vedo il cane che si allontana deluso, supera il muretto, sparisce oltre la cornice, oltre il mio sguardo. Ce l’ho con lui, perché se non fosse mai arrivato tutto questo non sarebbe successo, e allo stesso tempo mi sento colpevole del mio insuccesso, della mia incapacità di aiutarlo. Resto fermo, senza più la mano, il gas è ancora aperto, la cucina macchiata, il latte bruciato diffonde il suo odore sgradevole nella stanza. Resto con la cornetta vicina all’orecchio. Dall’altra parte del telefono si sente finalmente un sospiro, poi lontanissima un’eco, pronto, pronto. La chiamata viene interrotta.
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