Per come la vedo io il mondo, rispetto all’ambiente, si divide in due grosse bolle di pensiero. Una che si chiama dentro e dice: poiché sono una cellula che è parte del tutto, allora per quanto piccola anche io sono responsabile di ciò che accade e per questo provo a cambiare le cose o soffro per esse (che è molto simile a una sorta di pensiero animistico orientale); e un’altra che si tira in parte fuori fa un discorso opposto, sempre basandosi su ordini di grandezza, e dice: poiché io sono così piccola in confronto al mondo non posso credere di avere alcuna influenza su ciò che vi accade e pertanto credo che, se c’è un reale danno ambientale, allora è colpa di qualcuno che è più alto e più grande di me, che sia un governo o una lobby di potere (che è come una sorta di pensiero deistico occidentale). Ho appena letto un articolo, a firma di Claudia Bellante, che parla di eco-ansia, ansia da stress relativo ai danni ambientali (di cui soffro anche io): c’è uno stress da sensi di colpa, per chi sente di contribuire al riscaldamento globale; e uno stress delle prime vittime del danno, che è doppio, perché è stress da sopravvivenza quotidiana a cui si aggiunge quello della consapevolezza di essere sacrificati al benessere di altri, e ciò scatena malessere e rivendicazioni. In particolare, nel pezzo, mi ha colpito il commento di una indigena canadese che parlava di eco-lutto relativo alla consapevolezza di essere gli ultimi testimoni del venir meno di qualcosa che si sapeva lì da secoli, molto prima di noi (nel caso specifico il permafrost), e che ora semplicemente sta scomparendo sotto i loro occhi. Questo crea una certa ansia determinata dal senso di responsabilità verso la storia, perché, volente o no, tu hai fatto in tempo a vederla e ora sai che la sua esistenza, che sopravvive nella tua memoria, potrebbe finire una seconda volta con te.
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