Fear (1954) di Roberto Rossellini, è un film uscito in doppia lingua, inglese e tedesca, e poi doppiato in italiano col titolo La paura, con pesanti rimaneggiamenti della casa di produzione, soprattutto sul finale che snatura il senso dell’opera. Ambientato a Berlino, parla di una donna (lngrid Bergman) che non riesce a decidersi fra marito (Mathias Wieman) e amante (Kurt Kreuger) e finisce per subire un ricatto, frutto della vendetta, da parte di un’altra donna (una sensualissima Renate Mannhardt). Ispirato a un racconto di Stephen Zweig (Angst), è l’ultimo film con la Bergman prima che quest’ultima scelga di tornare in America, e in un certo senso chiude il periodo d’oro della produzione rosselliniana. Costruito come un noir, è possibile interpretarlo su più livelli, ma quello che più sorprende è la sua aderenza al dettato hitchcockiano, tutto basato sulla costruzione di una suspence inesorabile che cresce di minuto in minuto ma si esprime attraverso elementi minimi, appena suggeriti, e per questo ancora più inquietanti. Rossellini in quegli anni era spesso accusato di aver rovinato la vita alla Bergman, allontanandola dalla sua famiglia e dalla sua promettente carriera hollywoodiana per girare degli astrusi film “artistici” che non vendevano. Così, questo film è una sorta di rivalsa: una storia di pura ipocrisia famigliare che nulla ha da invidiare al miglior Hitchcock (quello del Sospetto per intenderci) con Hitchcock che, di contro, non era amato dalla critica, ma era considerato un grande artista “commerciale” e di cui la Bergman era stata protagonista prediletta. Unico difetto di Fear, per il pubblico, sta nel fatto che sia un giallo senza il morto (e come diceva S.S. Van Dine un giallo senza cadavere perde di interesse), ma a parte rivendicare l’aderenza al testo letterario, con Zweig che morti non voleva, è pur vero che allo stesso Hitchcock i delitti interessavano relativamente e quello di Rossellini era un confronto su un piano più alto con le atmosfere del maestro. Numerose in questo senso le scene memorabili. Ne cito tre perfette: la prima con la corsa in auto durante una gita in campagna, la Bergman al volante, con l’auto che attraverso una serpentina si infila di corsa in una macchia d’ombra fra gli alberi per poi sbucare in piena luce, una luce accecante, e fermarsi nello spiazzo della casa dove aspettano i figli; la seconda con la lunga passeggiata della Mannhardt nel foyer vuoto del teatro, l’ingresso nel teatro durante un concerto, il suo sguardo che cerca quello della Bergman, stabilendo un contatto sulle ultime note del pianoforte (qui è puro Hitchcock); l’ultima, verso la fine, con la Bergman che si aggira per un laboratorio fra le gabbiette delle cavie, alla ricerca del veleno per farla finita, ormai diventata cavia anche lei. Il film, ovviamente, non ebbe successo.
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