Ho letto l'intervista di Monica Rossi pubblicata oggi su Pangea, per altro interessante, ma mi soffermo su un punto in cui si dice: “Se ti definisci scrittore vuol dire che, in concreto, quello è il tuo lavoro. Con i proventi dei tuoi libri ci paghi l’affitto, le bollette, la spesa, la macchina, le vacanze, i vestiti, la scuola per i figli? Allora si, sei uno scrittore.” Monica Rossi, insomma, lega il ruolo ai risultati economici, gli altri possono certo sentirsi scrittori, ma senza pretendere di definirsi così, almeno finché non arriva il successo che li riscatterà. Da questo punto di vista nessun poeta italiano, a parte un paio di casi, è da considerarsi uno scrittore. Eppure, mi chiedo, se uno scrive un solo libro di grande successo commerciale e poi non ne scrive più, oppure non ne imbrocca più nessun altro con uguale successo e finisce pieno di debiti, quello è uno scrittore? Oppure, se di uno che si sente uno scrittore, che magari è morto in povertà o misconosciuto, dopo anni un editore pubblica i suoi libri e hanno successo, quello sconosciuto arrivato al successo dopo, è finalmente uno scrittore (anche se a pagare le bollette coi diritti sarà qualcun altro al posto suo)? Oppure è uno scrittore postumo, nel senso che lo scrittore è venuto dopo l’uomo, quando si è liberato del corpo? E se sì, se diventa scrittore postumo, non rientra anche quel suo essere postumo in un mito della “mentalità borghese”? Lo dico anche pensando alla linea editoriale di Pangea, che spesso fa dei gran lavori biografici per riportare l'attenzione su scrittori trascurati e spesso ingiustamente considerati minori i quali, se fosse buono quanto detto in premessa, semplicemente non andrebbero considerati scrittori, avvalorando l'oblio a cui il mercato editoriale li ha già condannati da tempo.
2 commenti:
Camilleri le bollette se le è pagate quando era già in pensione. Levi era chimico.Zardi le paga facendo l'ingegnere. Non so se fila sto discorso
secondo me è una fesseria, però come vedi c'è gente che ci crede...
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