Mi pare, ed è una cosa che sto notando con fastidio e dispiacere, che negli ultimi anni stia passando questo messaggio, specie fra gli autori più giovani: che per conquistarsi uno spazio di attenzione nell’asfissiante mondo editoriale, per attirare l’attenzione sui propri versi si debba ricorrere necessariamente a delle pose o atteggiamenti o proclami violentemente scandalistici. “L’importante è che se ne parli” non è una cosa nuova. Solo che un tempo, dopo i lo scandalo, erano soprattutto i libri a dar voce all’autore, adesso è l’autore a parlare, o meglio ancora a strepitare, solo per dire che c’è un libro, ma col rischio concreto che al libro non si arrivi mai, che l’unica cosa a rimanere alla fine sia soltanto lo scandalo, più o meno reale. Quello che forse infastidisce di più in tali polemiche create ad arte, è come spesso suonino palesemente inautentiche, frutto più della vanità personale che dell’ansia di opporsi a un’ingiustizia comune. In più, ed è la tragedia, tali polemiche sono spesso talmente povere o limitate nei contenuti da essere fortemente influenzate dal contesto di riferimento e da cosa quel contesto vuole: per cui persino l’autore “contro”, nell’espressione della propria contrarietà, si rivolgerà sempre e soltanto al pubblico compreso nel contesto che più lo avvalora (“ognuno riconosce i suoi” come citava Mazzoni) e, peggio, proprio per non venire ignorato, lo farà attraverso le modalità e i contenuti forniti dal contesto, cioè dall’alto, senza significative rotture. Insomma, tutto secondo canovacci preconfezionati in TV.
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