domenica 20 settembre 2020

caos organizzato

Visto oggi Chung Kuo di Antonioni, opera realizzata su commissione senza la quale non avremmo forse avuto Professione: reporter. Nel 1972 Antonioni viene spedito per due mesi in Cina, per realizzare un documentario di circa tre ore che andrà in onda sulla Rai suddiviso in tre puntate. La prima su Pechino, la seconda sulla campagna e altre città cinesi, la terza su Shangai. Particolarmente quest’ultima puntata ha un fascino incredibile, determinato dal fatto che sono stati ridotti al minimo i commenti parlati e musicali. Per quasi un’ora si vede l’obiettivo di Antonioni muoversi, anzi letteralmente perdersi per la città, attraversandola come fa l’acqua, senza bisogno di altro ritmo che quello dettato dal proprio sguardo che si spande lento fra le strade, sui volti. Guardandolo mi è venuto da pensare che spesso si accusa Antonioni proprio di essere “lento” nelle proprie riprese, pieno di tempi morti in cui non succede nulla. Invece a me pare che sia l’opposto, che Antonioni sia soprattutto un regista del rumore, e si muova più a suo agio, e con un’abilità registica formidabile, proprio nelle situazioni di caos estremo, di saturazione o assordamento dei sensi, anzi più rumore c’è meglio riesce a farlo risuonare sullo schermo e quel rumore esprime la sua irrefrenabile carica vitale. E si sente, anzi, che se la sta godendo, che non è simbolismo “esistenziale” il suo, ma puro godimento materico. In tal senso mi viene in mente una cosa che mi disse Vittorino Curci in merito alla lettura di poesie: che la parola in sé è importante, ma più importante ancora è il silenzio che un poeta riesce a creare intorno alla parola, per farla meglio risuonare nell’aria quando la pronunci. Allo stesso modo le atmosfere così rarefatte e sospese (e per alcuni esasperanti) di Antonioni non sono altro che la metodica preparazione di un silenzio che serve a far meglio deflagrare il caos.

Nessun commento: