Ho
appena terminato “A pranzo con Orson” libro a cura di Peter Biskind che
recupera l’ultima serie di chiacchierate/interviste di Orson Welles
poco prima della morte, col regista indipendente Henry Jaglom, che fanno
un po’ da seguito a “Il cinema secondo Orson Welles” di Peter
Bogdanovich, altro regista indipendente a lui molto vicino. Bogdanovich
presenta Welles a Jaglom che lo assume come attore nei suoi ultimi film e
prova a fargli da agente senza successo.
Così il libro di B. raccoglieva una serie di interviste in giro per gli
alberghi di mezzo mondo in un periodo convulso di progetti in cui Orson
emerge ancora come un grande maledetto ma vitale, mentre quello con J.,
assai più malinconico e a tratti rancoroso, registra una serie di
discorsi fatti a tavola (Tischreden) in un ristorante di Hollywood dove
spesso pranzavano da parte di un Welles ormai stanco, amareggiato e
terribilmente sovrappeso che per buona metà del libro non fa che
sparlare con perfidia di colleghi registi e attori che gli hanno voltato
le spalle o di critici in cattiva fede (“ebreo” è uno degli aggettivi
che usa più spesso), o rivangare più o meno acidamente alcune pagine del
proprio passato, e per l’altra metà continua a rimaneggiare preventivi
insoddisfacenti per dei film che non verranno mai realizzati, finché,
nelle ultime pagine, ammette di avere un disperato bisogno di soldi e di
essere invidioso di un suo vecchio socio meno talentuoso che fa soldi a
palate con la pubblicità mentre lui non riesce a trovare uno straccio
di produttore che voglia investire nella sua versione cinematografica
del Re Lear. Eppure, anche alla fine, Orson Welles sembra un grande
perdente shakespeariano: “Noi registi siamo dei poveracci. Arriviamo con
una borsa per la notte e ce ne andiamo a mani vuote.” Oppure: “Per me
la posterità è volgare come il successo. Non mi fido della posterità. Il
bello non viene necessariamente riconosciuto a distanza di tempo.
Troppi ottimi scrittori sono scomparsi.” Ma quella che preferisco perché
mi sento rappresentato in pieno è: “Miro all’impossibile: far soldi con
un genere di film che non fa soldi”.
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