Poco fa, mentre leggevo il post di un amico sull’uso della parola “green”, mi sono accorto che la legavo così intimamente ormai a “card” che mi stavo scordando il nome di quel famoso movimento ambientalista che invece la lega alla salvezza ecologica del pianeta (non quello di Greta, uno assai più vecchio, a cui ero pure tesserato, pensa te). Giuro che ho annaspato per un po’ nel vuoto. E così mi sono accorto che il “green” nella mia testa è tutto fuorché verde, anzi è quasi rosso, come un semaforo. E così mi è venuto da pensare a una cosa che succede ad esempio in Cina, dove i dispositivi di telefonia mobile hanno una impostazione per cui se digiti parole scomode, come ad esempio “Tibet”, il telefono le cancella di default, perché se la parola non esiste allora non esiste nemmeno il problema, non puoi esprimerlo, non puoi scriverne, nemmeno in un post. In Europa, per una serie di accordi commerciali alla pari, questo controllo delle parole sui dispositivi che ci vendono non viene applicato. Ma nel momento in cui il peso decisivo, economico e culturale, della Cina verrà a surclassare il nostro, cosa che tutti dicono avverrà nei prossimi due decenni, che anzi sta già avvenendo in questi giorni – ed è vero che il green pass è una prova generale per spostare il controllo sociale verso il più efficace modello orientale – anche da noi tornerà la censura. Bisogna starci molto attenti, perché altrimenti alcune parole semplicemente spariranno dal nostro vocabolario e dalla nostra memoria. Su quali parole saranno c’è solo da scommettere. Ma è molto più facile che succeda di quel che sembra.
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