Stamattina pensavo a quanto tutti si lamentano del fatto che non sei abbastanza sui giornali, che non c’è una distribuzione adeguata, che non vai a questo o quel festival, che nessuno ti conosce come meriti. A me devo dire importa poco di finire sui giornali: mi ricorderò sempre quando telefonai a Leogrande su consiglio di Minervini per lanciare il bando di un concorso di scrittura sociale sullo Straniero diretto da Fofi, e Leogrande, che all’epoca ne era il vicedirettore, si vergognava quasi a chiederci 450 euro + iva per la pagina. Per me quella rimane ancora l’immagine più viva del giornalismo culturale di oggi: uno che pure ha dei principi, come Leogrande, che deve chiederti 500 euro per mezza pagina di pubblicità a un concorso gratuito, se no la rivista chiude (come poi successe). E mi domando perché in questo mondo editoriale che vive sullo scambio di denaro come ogni altro mondo, tutti possono chiedere soldi per tutto a testa alta (i festival, i saloni, i giornali, i tipografi, gli uffici stampa, i distributori, magazzini e corrieri, i premi, le scuole di scrittura), meno gli editori. E più vado e più mi chiedo come ho fatto ad essere talmente stupido che in un ambito “culturale” dove i soldi girano come in tutti gli altri, forse con più ipocrisia, io sono riuscito a infilarmi nell’unico ruolo sempre moralmente in discussione quando chiede pecunia. Mi sembra ogni volta, giuro, di essermi preso per il culo da solo. Ma poi, per tornare alle prime righe, mi chiedo: e se comunque siamo poco visibili, tutti quelli che ci scrivono per proporre il loro lavoro, come cacchio ci trovano? Scende lo spirito santo a mostrargli la luce sulla via di Damasco? Posso vederla anche io un po’ di quella luce?
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