È
opinione comune che buona parte della bellissima filmografia di Carl
Theodor Dreyer, con la sua carica di rabbia e di dolore trattenuti e
sempre sul punto di scoppiare, tanto da creare una continua tensione
emotiva, di chiara ascendenza neoclassica, nello spettatore, sia frutto
di un’infanzia infelice. Dreyer, figlio illegittimo di una relazione
clandestina, venne dato in adozione a una severissima famiglia luterana –
la madre naturale era governante nella casa del padre, sposato
a un’altra, e morì poco dopo a causa di un tentativo di aborto fallito –
e crebbe in un ambiente rigido, soffocante, che non faceva altro che
rinfacciargli le sue origini “sbagliate” solo per ribadire, in una sorta
di ricatto emotivo, quanto dovesse essere grato a chi lo aveva salvato
dandogli una casa. Ecco allora dove nascono l’odio per ogni forma di
oppressione e l’assillante sentimento religioso presente in tutti i suoi
film, il continuo conflitto con le figure genitoriali,
l’incomunicabilità e il disperato bisogno d’amore che si sposano, però, a
una continua ricerca d’ordine formale, espressione di un rigore morale
che era frutto di un’educazione frigida. Ecco dove nascono i bellissimi
ritratti di donne così emancipate: le donne di Dreyer desiderano e
soffrono a testa alta, si fanno furbe, ladre, prendono, rispondono,
rivendicano un posto, un diritto alla parola, una loro dignità. Non
sempre puoi amarle, ma non puoi ignorarle, al contrario di quanto era
successo a sua madre. Di fronte a storie come la sua viene sempre da
chiedersi se sarebbe stato preferibile avere un genio di meno e un
bambino felice in più. Oppure se anche l’infelicità ha un suo motivo di
essere proprio nel godimento e nel senso di crescita che proviamo noi,
ogni qualvolta guardiamo un suo film.
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