domenica 8 ottobre 2023

felicità

È opinione comune che buona parte della bellissima filmografia di Carl Theodor Dreyer, con la sua carica di rabbia e di dolore trattenuti e sempre sul punto di scoppiare, tanto da creare una continua tensione emotiva, di chiara ascendenza neoclassica, nello spettatore, sia frutto di un’infanzia infelice. Dreyer, figlio illegittimo di una relazione clandestina, venne dato in adozione a una severissima famiglia luterana – la madre naturale era governante nella casa del padre, sposato a un’altra, e morì poco dopo a causa di un tentativo di aborto fallito – e crebbe in un ambiente rigido, soffocante, che non faceva altro che rinfacciargli le sue origini “sbagliate” solo per ribadire, in una sorta di ricatto emotivo, quanto dovesse essere grato a chi lo aveva salvato dandogli una casa. Ecco allora dove nascono l’odio per ogni forma di oppressione e l’assillante sentimento religioso presente in tutti i suoi film, il continuo conflitto con le figure genitoriali, l’incomunicabilità e il disperato bisogno d’amore che si sposano, però, a una continua ricerca d’ordine formale, espressione di un rigore morale che era frutto di un’educazione frigida. Ecco dove nascono i bellissimi ritratti di donne così emancipate: le donne di Dreyer desiderano e soffrono a testa alta, si fanno furbe, ladre, prendono, rispondono, rivendicano un posto, un diritto alla parola, una loro dignità. Non sempre puoi amarle, ma non puoi ignorarle, al contrario di quanto era successo a sua madre. Di fronte a storie come la sua viene sempre da chiedersi se sarebbe stato preferibile avere un genio di meno e un bambino felice in più. Oppure se anche l’infelicità ha un suo motivo di essere proprio nel godimento e nel senso di crescita che proviamo noi, ogni qualvolta guardiamo un suo film.

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