Ci sono cose che mi lasciano sempre un filo perplesso, che non dico di non capire ma le cui sfumature certe volte mi sfuggono fra le dita. Tipo questa cosa del Nobel che è, lo sanno tutti, un premio “politico” almeno quanto è prestigioso, ma scatena tifoserie come poche, e in Italia in particolare molto forti sul fronte americano – tanto che se vince un italiano è sempre “peggio” che se lo vincesse un americano, che “lo merita di più”, ma anche se vince un qualsiasi altro nel mondo “chi lo conosce quello?” è la risposta, e meglio sarebbe stato lo vincesse uno dei grandi scrittori americani che sempre “lo meritano di più”. Ogni anno è così. Poi parlano di guerra, una qualsiasi guerra nel mondo per “esportare la pace”, e magari odiano la Nato e gli americani che ne sono il braccio armato. E allora non capisco come a un premio così “politico” com’è il Nobel, un premio dove dietro ogni scelta c’è sempre, anche, una scelta di campo, una indicazione di sistema – e la cultura è la massima espressione di un sistema politico o di pensiero, è la cultura che vince sugli imperi, più di ogni esercito – si riesca a fare il tifo, dissociandosi dalle proprie opinioni, per uno scrittore che è “anche” espressione di una cultura che non si ama, o non si approva, o si vorrebbe frenare. Dire l’America no, ma per l’America tifo. Poi uno certo mi dirà che il tot scrittore non è per forza espressione di un intero Paese, che è contro la tot cultura, ma non significa nulla. Essere contro la propria cultura è già essere un’espressione di quella cultura, perché la tua opposizione nasce al suo interno e ha ragione di essere soltanto se messa a confronto di quel contesto. E anche noi, che siamo contro il complesso industriale-militare americano, poi ci nutriamo della loro cultura che per noi vale più ancora della nostra, le diamo più valore, persino nella lingua, e la tifiamo ai premi più ancora della nostra, noi che cultura siamo?
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