“Il cuore è un cimitero spazioso” scrive Heiner Müller a p. 55 del suo libro e poi aggiunge: “Ieri ho cominciato a ucciderti”. Non mi vergogno di parlarti attraverso le parole degli altri. Mamma non la smette di parlarti persino quando appare più ridicola. Guarda i muri e parla a te attraverso quelli. Parla ai muri. Agli alberi. Io non ci riesco. Un muro resta un muro. Un albero un albero. Non toccano le tue corde. Piuttosto fisso la tua foto da cui mi sorridi innocente come se non ci fosse un domani. Ma un domani c’è sempre, prometti, il domani in cui “la mano si ribella” al silenzio (p. 197) quando la voce diventa illeggibile e l’unica per farsi capire è scrivere. Scrivere come facevi tu verso la fine, sul tuo quaderno o con le dita nell’aria, le parole che non la smettono mai di sanguinare, indirizzarsi a una primavera ipotetica anche quando il silenzio non semina, nemmeno una speranza. Batterle su una macchina da scrivere, come faceva il poeta Müller malato terminale, che non riusciva a decifrare la sua stessa grafia estorta al dolore. Oppure, come adesso, sopra il mio computer che più va avanti e più assume la forma della casa, il suo futuro. Le lettere sui tasti si vanno cancellando, lo schermo scricchiola sulle giunture, tenuto insieme col nastro di gomma nero, proprio come fanno i muri agli occhi di mia madre che si tengono insieme e non scoppiano soltanto perché dentro ci sei tu.
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